Charleston è una cittadina di circa 130.000 abitanti e dalla popolazione variegata sia a livello sociale che razziale: sviluppatasi nel ‘600 attorno alla crescita del proprio porto, è costituita da un piccolo e caratteristico nucleo storico detto “la Penisola”, via via circondato nei secoli da diverse aree residenziali, prevalentemente operaie. Negli ultimi anni, però, si è socialmente molto imborghesita (un brutto termine dall’inglese la definirebbe “gentrificata”) e la popolazione nera, che negli anni ’80 rappresentava ancora circa l’80% degli abitanti del centro, con la crescita degli affitti e dei costi quotidiani si è spostata all’esterno della città storica, dove è ora sono rimasti solo circa il 30% di residenti afroamericani.
Una realtà ancora più dura è rivelata dalle cifre della ristorazione: in centro negli ultimi trent’anni sono fioriti locali e ristoranti che col tempo hanno conquistato grande qualità e fama e che, specie dopo le trasmissioni di Antony Bourdain su Charleston, hanno visto un’impennata di interesse e di consensi, attirando amanti della gastronomia anche dal resto degli Stati Uniti. Charleston spicca dunque nel panorama gastronomico degli Stati del Sud come la più antica patria di una fantastica cucina “locale” del Sudest, più o meno autentica o rielaborata.
Nessuno di questi locali, però, è di proprietà afroamericana nonostante i Gullah abbiano cucinato per i bianchi per oltre trecento anni, prima come schiavi e poi come domestici, e ne abbiano arricchito la tavola di sapori e stile inconfondibili, sviluppando essi stessi quelle caratteristiche che oggi sono ritenuti propri e distintivi della cucina di Charleston.
Ce lo fa notare Michael Twitty, storico dell’alimentazione e autore di Afroculinaria, nella sua intervista del 2016 a Eater
Ci si aspetterebbe dunque che venissero ritenuti dei maestri in cucina: le prime generazioni di schiavi si insediarono sul posto dal 1619 e verso il 1861, con la liberazione ufficiale dalla schiavitù, parte dei loro discendenti si dispersero per tutti gli Stati Uniti ma molti rimasero, restando a servizio delle famiglie bianche o avviando piccole attività agricole ed artigianali, e così contribuirono a mantenere la lingua e la cultura Gullah, ma anche la loro magnifica tradizione culinaria, basata su quei sapori che per molti afroamericani sparsi nel Paese oggi rappresentano familiarità, radici e tipicità.
La ristorazione di Charleston resta tendenzialmente in mano ai bianchi anche se, come sottolinea l’antropologo Ade A. Ofunniyin, fondatore di The Gullah Society, nell’ultimo ventennio la città ed il territorio hanno iniziato a dare credito alla profonda cultura dalle radici africane che emerge dalla cucina Gullah più autentica, riconoscendo e rispettando finalmente la presenza, il significato e l’importanza di questa popolazione e del suo fondamentale ruolo culinario.
In tale rivalutazione hanno una certa responsabilità i movimenti di consapevolezza culturale Gullah, che negli ultimi anni sono riusciti a mettere in evidenza agli occhi del grande pubblico (e dei ristoratori più famosi!) la “cucina di casa” delle massaie Gullah.
Gli strumenti sono stati sagre e manifestazioni dedicate alle proprie tradizioni, ma anche popup restaurant in centro città e collaborazioni ad eventi “bianchi”. E’ rimasta famosa la partecipazione di B J Dennis, lo chef novello portavoce della tradizione culinaria Gullah al Charleston Wine and Food Festival del 2016, in cui servì un intero menù di piatti casalinghi presentati in modo elegante che affondavano le radici non solo nella cucina locale risalente al ‘600 ma anche il quella più antica dell’Africa Occidentale. Un esempio per tutti il classico pollo affumicato, lì profumato in cottura con una salsa al pepe e aceto di memoria africana ed accompagnato da riso giallo, in cui la curcuma citava la storia di Charleston come città portuale, e da pone, un pane cotto in padella tipico del Sud, aromatizzato per l’occasione con patate dolci.
Quella Gullah, dunque, non sembra più una cultura morente, come si pensava, anche se cucinare autenticamente Gullah è difficile: non basta usare ingredienti locali, vanno colte l’anima e la storia del piatto, come accade tutt’ora nelle cucine di casa e nelle piccole trattorie gestite dalle mami Gullah. Si tratta di ristorantini a basso prezzo in cui i raffinati clienti bianchi del centro di solito non mettono piede ma che dovrebbero fare da riferimento agli chef bianchi dei ristoranti cittadini. Infatti, secondo Twitty, in assenza di un’anima di discendenza Gullah nel piatto, ci si può avvicinare solo con un grande lavoro di ricerca e mettendoci il cuore, perché se non se ne conoscono (o non se ne vuole riconoscere!) le origini, si rischia di “idolatrare il prodotto” , o, per dirla con le parole di B J Dennis nell’intervista per lo stesso articolo di Eater, solo perché è di moda “vendere una tipicità” a cui in realtà non si appartiene.
I ristoranti pluripremiati di certo conoscono ed utilizzano con consapevolezza le materie prime, ma spesso le utilizzano con una visione poco rispettosa della autentica tradizione Gullah perché ne dimenticano le profonde radici africane. Anche per questo loro abbondante e parzialmente inconsapevole utilizzo, prodotti un tempo economici come piselli, riso Carolina Gold o interiora sono cresciuti esponenzialmente di prezzo negli ultimi anni, e questo crea problemi ai piccoli locali a conduzione familiare, gli unici che la popolazione media della città, con redditi operai, può in realtà permettersi, e spesso per stare nei costi alcuni di loro si riducono ad offrire piatti economicissimi come pollo fritto, fagioli e poco altro.
Si rischia così di perdere la vasta profonda tipicità Gullah in un più generico concetto di soul food, anche perché non tutti i ragazzi afroamericani di talento possono permettersi di frequentare le scuole di cucina, unica strada oggi che permette l’accesso ai grandi ristoranti, ed è un’assurdità, visto che ciascuno di loro potrebbe probabilmente conoscere meglio l’autentica cucina locale e ripercorrerne le origini Gullah grazie alle proprie nonne e cuoche di quartiere rispetto a ciò che potrebbe imparare da un corso standardizzato.
In realtà esiste un’opportunità di mercato alternativa: sull’onda del crescenti successi nella promozione della cultura Gullah si potrebbero sostenere, promuovere e sviluppare i piccoli ristoranti locali autentici, che sono ricchi di sapienza e buon senso ma a cui occorre una maggiore popolarità. Così potrebbero continuare ad offrire più facilmente piatti tradizionali, indissolubilmente legati al mare, alla terra ed alle stagioni come il conch stew (stufato di murici), il crab rice (riso al granchio), lo head-on fried whiting (merlano fritto “a testa in su”) il gumbo (zuppa di okra) o il mitico purloo, un sostanzioso riso con crostacei, salsicce e verdure il cui nome in lingua Gullah significa “pilaf”.
Se tale movimento prendesse piede, ecco che non sarebbe più così difficile aprire anche dei bei locali afroamericani in centro, facendo così in modo che il turismo gastronomico di cui Charleston è ricca possa conoscere direttamente l’autentica cucina Gullah, preparata da cuochi Gullah in ristoranti “di moda” ma di proprietà Gullah.