Dentro la Storia: i Gullah-Geechee
E’ ai Gullah-Geechee che è dunque dedicato questo numero zero di MTChallenge- Taste the World: una comunità stanziata nella costa orientale degli Stati del Sud , di enorme interesse per gli antropologi, per i linguisti, per gli storici del cibo- e questo in forza dello strettisimo legame da sempre mantenuto con la madre patria, a dispetto delle distanze geografiche e dei quasi 400 anni che intercorrono dall’arrivo del primo gruppo di schiavi. Questo legame ha tracce talmente evidenti nell’attuale cultura di questo popolo che oggi i Gullah-Geechee vengono definiti la più africana fra le comunità afro-americane degli Stati Uniti d’America.
Di sicura origine africana è il nome di questa minoranza, Gullah,direttamente connesso alla zona di provenienza: per alcuni sarebbe una contrazione di Angola, per altri un derivato da Gola o Dyula, i nomi di due comunità dell’Africa occidentale da cui partì un gran numero di schiavi. Geechee è invece il nome con cui i Gullah sono chiamati in Georgia, dal fiume Ogeechee |
A noi che parliamo di cibo, i Gullah-Geechee interessano per un fatto particolare: è ai loro progenitori infatti che si deve l’inizio della coltivazione del riso nel Nord America. Assieme al riso, gli antenati dei Gullah portano anche altri ingredienti che definiranno il DNA della futura cucina statunitense, come il sesamo, l’okra, i fagioli con l’occhio. Ma è il riso il perno attorno a cui ruota tutta la storia che vi sto per raccontare.
Il riso arriva negli Stati Uniti quando questi sono ancora ben al di là dall’essere riconosciuti politicamente come tali e sono ancora una terra di conquista in mano a coloni spregiudicati, tutti figli della cultura del grano. E’ il grano che viene seminato in ogni dove, almeno fino a quando le condizioni climatiche lo consentono. Ma quando i coloni penetrano più a Sud, gli scenari cambiano e suggeriscono a gran voce non la spiga ma il chicco di riso.
Questo avviene in una zona ben precisa della parte Sud del Paese, quella che oggi corrisponde alla fascia costiera che dalla Carolina del Sud scende attraverso la Georgia fino al Nord della Florida, specialmente dove la costa degrada fino a trasformarsi in Laguna, in quelle che oggi si chiamano Lowcountries. Qui il clima è subtropicale (quindi caldo e piovoso) e il terreno pianeggiante invoglia alla coltivazione di questo cereale che, non a caso, si adatta benissimo all’ambiente. Quello che manca, però, è il know how- proprio a causa del retroterra occidentale dei primi coloni, a cui vengono però in aiuto le grandi descrizioni di viaggi dei primi esploratori .
Erano stati i Portoghesi ad aver scoperto, due secoli prima, quella che già allora veniva chiamata Rice Valley, vale a dire la parte occidentale del continente africano, corrispondente al delta del fiume Niger, la zona che oggi chiamiamo Senegambia, Liberia, Costa d’Avorio: qui il riso era stato addomesticato in una varietà autoctona fra il III e il II millennio avanti Cristo e da allora era stato coltivato senza soluzione di continuità, tanto da trasformare la geografia del paesaggio: uno sterminato stagno pieno di piante di riso, lo definirono gli sbalorditi esploratori che fra il XV e il XVI secolo toccarono queste coste.
E così, ha inizio la storia dei Gullah-Geechee, con le pagine più vergognose, più turpi, più dolorose della deportazione dei Neri dell’Africa alle Terre del Nuovo Mondo.
Si trattava però di una deportazione di quella che noi oggi chiameremmo manodopera specializzata: questi schiavi, cioè, erano indispensabili non solo come forza lavoro, ma anche come tecnici esperti, senza i quali non sarebbe stato possibile avviare nessuna coltivazione su larga scala, come invece avvenne. La coltura e la cultura del riso si fondono quindi nel sapere dei Gulla-Geechee ed è grazie a questo che si rende possibile il passo successivo, altro tassello fondamentale della loro storia
Se avete avuto un passato negli Scout, sicuramente conoscerete Kumbaya, il canto che di solito segnava il momento finale della giornata, attorno al falò. Kumbaya è un canto di preghiera dei Gullah-Geechee, nella loro lingua. La pronuncia esatta è “Kam- by- Hia” che sta per “Come by here”,”vieni qui”, un invito al Signore ad assistere i suoi figli nella durezza della vita dei loro giorni più cupi |
Il clima subtropicale, il caldo, le piogge, l’acqua stagnante sono certamente l’habitat adatto per il riso ma lo sono anche per le zanzare. Dietro alle verdi distese delle piantagioni, si nascondevano killer invisibili e letali che esponevano tutti gli abitanti di queste zone al rischio della malaria, della febbre gialla e di chissà quante altre malattie tropicali, archiviate a quei tempi come febbri ma ugualmente pericolose. Risiedere in queste isole, in poche parole, era una scelta forzata a cui i coloni del tempo si piegavano solo per necessità. Altrimenti, erano pronte le case di città, più confortevoli, più sicure ed anche più comode per uno stile di vita più raffinato e più mondano.
Tutti questi fattori (insalubrità del clima, amore per la vita mondana e, soprattutto, la consapevolezza di poter affidare ai propri schiavi l’intera gestione delle piantagioni di riso) fece sì che i Gullah-Geechee potessero mantenere quasi inalterata la loro cultura di origine. Si aggiunga anche che la maggiore concentrazione della comunità era nelle grandi isole della laguna, nella Carolina del Sud, che all’epoca erano raggiungibili solo per mare: il che comportò un isolamento anche geografico. Inoltre, il successo delle coltivazioni del riso produsse un flusso continuo di schiavi provenienti dalla Rice Valley che naturalmente venivano accolti dalla loro comunità che cresceva nella custodia delle proprie tradizioni, delle proprie usanze, della propria lingua
A questo proposito, la lingua Gallah è una delle più studiate dai linguisti di tutto il mondo proprio per l’alto numero di parole e di nomi propri che sono rimasti identici a quelli delle lingue parlate dai loro progenitori. |
Tornando alla loro storia, con queste premesse non si resta stupiti nell’apprendere che, al tempo della guerra di Secessione, i Gullah-Geechee siano stati il primo popolo schiavo ad essere liberato dalle truppe nordiste. E non a seguito di una battaglia feroce e sanguinosa, ma proprio per l’abitudine dei loro padroni di abbandonare la piantagione al profilarsi di un pericolo. Prima c’erano le zanzare, ora ci sono i soldati nemici- ma la reazione è comunque la stessa, quella di abbandonare le proprie cose (e gli schiavi, non dimentichiamoci, erano cose) al loro destino.
Il destino che attende i Gullah-Geechee è un destino già scritto, nel DNA di questa comunità. E’ un destino fondato sulla consapevolezza che i due secoli di schiavitù non hanno intaccato il loro senso di appartenenza, rinforzando semmai la loro cultura. Preservare il legame con le origini non li aveva chiusi alle istanze del nuovo mondo a cui si erano accostati con la dignità di chi sa di poter fare un discorso alla pari, un dialogo vero, proprio in forza di una cultura identitaria forte, alle spalle. E’ significativo- e anche bellissimo e anche commovente- che la prima scuola degli schiavi liberati , il Penn Center, sia nata proprio qui e che ancora prima che gli Stati del Sud accettassero la legge che vietava la schiavitù, i Gullah abbiano potuto comprare quelle terre che avevano lavorato da schiavi e su cui ora iniziavano la nuova vita di uomini liberi.
PER SAPERNE DI PIÙ
Una buona bibliografia, suddivisa per generi e sottogeneri, si trova su Wikipedia, alla voce Gullah e a quella si rimanda. Mi limito qui a segnalare alcuni aggiornamenti più recenti
Per una introduzione generale alla storia degli Schiavi nel Lowcountry, vi consiglio un giro nell’archivio di GeorgetownCountyLibr, con riferimento particolare ai video dedicati all’argomento. Sono in più puntate (la prima è qui) e mi sembrano fatti molto bene: quanto meno, sono un ottimo inizio per la contestualizzazione della storia di questa comunità.
Molto più leggero è invece il reportage di Padma Lakshmi, a questo link, sulla cultura dei Gullah e soprattutto questo breve video di Nourish, a mio parere molto più verace ed emozionante.
Purtroppo è protetta da diritti- e quindi non disponibile on line- la puntata di Parts Unknown che Anthony Bourdain dedicò al South Carolina e ai Gullah: ne parleremo comunque, perché, tanto per cambiare, il nostro era riuscito a fare notizia e a farla in quel modo che tanto rimpiangiamo, lontanissimo dal politicamente corretto e dal radicalismo chic. Nell’attesa, potete comunque trovare qualche spezzone qui
Le pubblicazioni recenti che non dobrebbero mancare nella biblioteca di chi volesse saperne di più sono le seguenti
LIBRI
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Fondamentale per una conoscenza generale della storia della cucina degli Afro-Americani negli Stati del Sud è il libro di Michael Twitty, The Cooking Gene: A Journey Through African American Culinary History in the Old South. Pochissime ricette, moltissima storia con una grande apertura agli aspetti antropologici ed etnografici, è consigliato a chi conosce bene l’inglese.
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Da non perdere, invece, per gli amanti della cucina (anche quelli che con l’inglese non vanno d’accordo) è il caso letterario di quest’anno, Toni Tipton-Martin, Jubilee –Recipes from Two Centuries of African-american Cooking: a Cookbook. Libro ricchissimo, prodotto di uno studio approfondito dei ricettari della cucina afro-americana collezionati dall’autrice nel corso degli anni, che getta una luce diversa sull’ambiente in cui questa cucina prese forma, lontana dagli stereotipi.
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Sulla storia del Riso in America e sul suo legame con gli Schiavi c’è poi Carney, Judith (2001). Black Rice: The African Origins of Rice Cultivation in the Americas. E’ citato anche nella bibliografia di Wikipedia, il fatto che lo rimarchi la dice lunga sulla sua importanza.
ARTICOLI
C’è l’imbarazzo della scelta e, come capita spesso in questi casi, il rischio è il ripetersi delle stesse cose- personaggi, ricette, notizie.
Mi limito a citare Khalid Salaam, su Food 52 ( 3 agosto 2018) Hilary Cadigan, su Bon Appetit (14 agosto 2019) e, su tutti, Hilary Dixler Canavan su Eater (22 marzo 2016)
I Film
Uno solo, bellissimo, tutto incentrato sul Gullah e ambientato nel 1902, Daughters of the Dust (1991). E’ stato inserito nel National Film Registry (l’elenco dei film meritevoli di essere salvati) e la regista, Julie Dash, è stata la prima donna afro americana ad aver ottenuto la distribuzione regolare del proprio film in tutte le sale. Ovviamente, in Italia non è arrivato, ma potete leggerne qualcosa qui (in italiano) e molto qui (in inglese). Per avere idea della sua bellezza (gran parte dei dialoghi sono in Gullah), basta questo trailer, girato in occasione del restauro del film, per il 25esimo anniversario dalla sua uscita nelle sale.
E’ stato ampiamente citato da Beyoncé nell’altrettanto pluripremiato video ”All Night” (Lemonade)
4 comments
Questo articolo è stupefacente.
FANTASTICA ALE, grazie!!! La bellezza di questo progetto è tutta in questo post, nella valorizzazione di una cultura sconosciuta e nel dare ai Gullah Geechee il posto che spetta loro nella Storia.
ecco, questi sono gli articoli che danno un vero senso al tutto!
Post meravigliosamente interessante.
Con solo una piccola osservazione: magari è un problema solo mio, ma per quanto elegante il font di scrittura rende la lettura un po’ difficoltosa ♥️
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