La gente, più o meno comune, ha sempre amato le storie.
Sulle storie si sono fondate civiltà, codici morali, assetti sociali e molto altro: i miti, le parabole, le epopee sono stati gli strumenti che, sin dai tempi più remoti, hanno permesso di trasmettere concetti altrimenti impossibili da essere compresi e che in questo modo si sono invece impressi nel DNA, fondando popoli, nazioni, indentità.
Le storie sono state il primo strumento di educazione, etica prima ancora che nozionistica, da Esopo a Manzoni, da Omero ai Fratelli Grimm. E’ con loro che abbiamo educato i nostri sentimenti, imparando a ridere, a piangere, ad emozionarci, è grazie a loro che abbiamo trasmesso alle generazioni future i nostri valori e il nostro credo.
Almeno finchè siamo stati buoni…
Quando lo siamo stati meno, abbiamo intuito il potere del lato oscuro delle storie, trasformandole in mezzi per la manipolazione. Lo aveva già fatto Sherazade, per una buona causa, ma da allora in poi è stata tutta una escalation, fino ad arrivare alla codificazione di un linguaggio volto alla persuasione occulta con l’avvento della pubblicità.
Anche se oggi sembra difficile da capire, imbevuti come siamo di immagini e sempre meno capaci di concentrazione sui testi, le storie sono state per decenni un modello vincente: Carosello ebbe il merito di trasporre sullo schermo un tipo di comunicazione ormai consolidata da anni sulla carta, ai tempi in cui le pagine delle riviste si compravano per riempirle non di slogan brevissimi, a caratteri cubitali, ma di lunghi racconti, scritti in piccolo, che solo alla fine svelavano la loro vera natura commerciale. Come dire, prima ti proietto nel tuo sogno e poi ti illudo che lo strumento per realizzarlo sia un nuovo rasoio, una marca di amaro o una macchina nuova.
Le pubblicità delle riviste femminili degli anni Cinquanta e Sessanta non fanno eccezione, anzi: per certi versi sono la sublimazione di questo modello, vista la dichiarata passione del target a cui si rivolgevano per le storie. Si trattava solo di trovare dei contenuti che intercettassero i sogni delle donne di allora e non turbassero quelli degli editori, esponenti di spicco dell’Italia perbenista di quei tempi. “Trovare marito” risultò essere la carta vincente, tanto per alimentare le aspettative di chi vedeva la sua realizzazione nel ruolo di moglie e di madre (rigorosamente in quest’ordine, anzi: l’ordine inverso era una macchia indelebile, sul pedigree prima ancora che sulla coscienza) sia anche per scongiurare quei primi segni di tempesta che avrebbero poi portato al femminismo e alle rivoluzioni successive. La donna sposata era la donna accettata e quindi accettabile e tanto bastava per convogliare ogni messaggio sull’unico traguardo possibile e sull’unico trofeo possibile: l’altare di una chiesa e la fede all’anulare sinistro.
Di tutti gli strumenti possibili per realizzare questo sogno, il caffè era quello che meglio riusciva a fare presa, sull’immaginario collettivo: il messaggio su cui fare leva non era tanto quello dell’italianità racchiusa dentro una tazzina della nostra bevanda nazionale, quanto quello, più insinuato e quindi più potente, di saper conquistare un uomo promettendogli il calore di una intimità domestica capace di opporsi a tutte le tentazioni del nemico numero uno della pace familiare, vale a dire il freddo bancone di un bar. La Cucina Italiana non faceva eccezione, tanto da pubblicare questa pubblicità, la cui storia merita una lettura integrale, giusto per comprendere meglio quanto appena scritto.
La protagonista è una donna come tante (e qui si individua il target, il “pubblico medio” che tanto piace agli editori, allora come ora), senza molte attrattive, visto che si riduce ad arrivare all’ultimo dell’anno con il solo invito della vicina di casa (altro messaggio importante: pubblico medio e donna mediocre, nell’accezione più neutra del termine). E’ timida (un punto a favore) ed arrossisce, chiedendo per questo comprensione alle “giovani lettrici che soffrono anch’esse di questo complesso e che alcuni sostengono farsi sempre più raro”. Prima che insorgiate con un mitra, eliminando il problema della rarità con uno sterminio di massa, questi sono gli anni in cui Giorgio Gaber faceva commuovere mezza Italia cantando Non arrossire. E se non vi commuovete ancora oggi, riascoltandolo, peggio per voi (per le Talent Generescion, qui avete uno splendido Morgan, nella cover)
http://https://www.youtube.com/watch?v=BQUSF1MNAsY
L’unico rimedio per scongiurare la timidezza era darsi da fare in cucina, con tartine e bottiglie. Aprendole solo, come bada a specificare l’articolista, in modo che sia chiaro a tutti che il rossore successivo sarà dovuto all’emozione di un primo incontro con uno sconosciuto e non ai sintomi di una prima sbornia. E mentre è lì che armeggia con coltelli e apribottiglie, ecco che arriva lui, il principe azzurro della media borghesia che la invita a ballare, sopporta stoicamente che lei gli pesti i piedi per tutto il tempo e si”apparti leggermente” con lei, tempestandola di domande.
Fin qui, tutto regolare. L’antefatto è stato narrato, i personaggi delineati, l’atomsfera creata. Manca il colpo di scena, quello che finalmente fa prendere ritmo alla storia e lascia i lettori col fiato sospeso. E che cosa può succedere, in un capodanno in salotto negli anni Cinquanta?
Un colpo di fulmine? Noooooo, troppo remoto…
Un colpo apoplettico? Nooooo, troppo triste…
Un colpo di testa? Giammai, siamo signorine per bene.
Ma un bel colpo di mal di pancia, invece, quello è perfetto. E chi dice che la colpa è delle tartine, è un vergognoso malpensante 🙂
Il Procio, insomma, ha qualcosa sullo stomaco. E allora la fanciulla, che fino a quel momento non aveva fatto altro che bablettare e arrossire, si trasforma immediatamente in un concentrato di tutte le virtù, prima fra tutte la proposta di andare a casa sua, dove ad attenderli c’è un rimedio passatutto.
Che, ovviamente, è la suocera, in primis- e in secundis la caffettiera galeotta, che fece sparire il peso sullo stomaco del co-protagonista e tutte le preoccupazioni della nostra eroina, portandola dritta all’altare dopo soli sei mesi. E tutto per merito del caffè.
E poi uno si chiede perchè beviam solo Negroni….
4 comments
e che indottrinamento!!!
Fantastica, sia la storia sia l’analisi.
In effetti si provvedeva all'”indottrinamento” in molti modi già da allora
Ale, mi sono ribaltata dal ridere da un lato, ma dall’altro sono rimasta ammirata da questo splendido pezzo di storia del costume.
Ho alcune vecchie riviste e ogni tanto le sfoglio, ma un’analisi così approfondita me la sarei sognata.
Grazie!
ahaha, mapi, too good!
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