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Se dovessimo fare una mappa sulla geografia degli zuccheri
nell’antichità, il miele occuperebbe di diritto tutta l’area
mediterranea: ci volle almeno qualche secolo dalla caduta dell’Impero
romano, prima che gli Arabi riuscissero a ricreare il microclima adatto
alla coltivazione massiccia della canna da zucchero e altri 300 anni
prima che i Crociati europei si rendessero conto dell’enorme
potenzialità di quel dolcificante: ma prima di allora, era il miele a
spadroneggiare nelle cucine del mondo antico,entrando anche in
preparazione complesse, come dolcificante o legante.
nell’antichità, il miele occuperebbe di diritto tutta l’area
mediterranea: ci volle almeno qualche secolo dalla caduta dell’Impero
romano, prima che gli Arabi riuscissero a ricreare il microclima adatto
alla coltivazione massiccia della canna da zucchero e altri 300 anni
prima che i Crociati europei si rendessero conto dell’enorme
potenzialità di quel dolcificante: ma prima di allora, era il miele a
spadroneggiare nelle cucine del mondo antico,entrando anche in
preparazione complesse, come dolcificante o legante.
E’ assai
probabile che la scoperta di questo prodotto sia avvenuta per caso,
circa due milioni di anni fa: non è neppure escluso che la si debba
collegare all’ambiente dei cacciatori, sulle tracce degli orsi. Quello
che è certo è che il suo consumo si colloca nella notte dei tempi, visto
che lo troviamo rappresentato già in alcune pitture rupestri (in
Rhodesia, nello Zimbawe e a Castellon, in Spagna) e citato nel Codice di
Hammurabi, oltre che in ripetute pitture egizie e, naturalmente,
nell’Antico Testamento: la terra di Canaan è il “paese dove scorre latte
e miele”, il “favo di miele” dei Proverbi è “dolce per l’anima e
salutare per le ossa” (Pr., 16.24) e quando Zofar parla con Giobbe del
castigo dell’empio non esita a ricorrere al miele come metafora per
quello di cui sarà privo:” non vedrà più ruscelli di olio, torrenti di
miele e fiumi di latte”(Gb, 20.17)
probabile che la scoperta di questo prodotto sia avvenuta per caso,
circa due milioni di anni fa: non è neppure escluso che la si debba
collegare all’ambiente dei cacciatori, sulle tracce degli orsi. Quello
che è certo è che il suo consumo si colloca nella notte dei tempi, visto
che lo troviamo rappresentato già in alcune pitture rupestri (in
Rhodesia, nello Zimbawe e a Castellon, in Spagna) e citato nel Codice di
Hammurabi, oltre che in ripetute pitture egizie e, naturalmente,
nell’Antico Testamento: la terra di Canaan è il “paese dove scorre latte
e miele”, il “favo di miele” dei Proverbi è “dolce per l’anima e
salutare per le ossa” (Pr., 16.24) e quando Zofar parla con Giobbe del
castigo dell’empio non esita a ricorrere al miele come metafora per
quello di cui sarà privo:” non vedrà più ruscelli di olio, torrenti di
miele e fiumi di latte”(Gb, 20.17)
A riportarlo sul terreno della
concretezza e della praticità furono, neanche a dirlo, i Greci prima e i
Romani poi, con l’ampio utilizzo che ne fecero in cucina: persino
Pitagora, altrimenti parco e inflessibile, cedette alle lusinghe di
questo nettare, raccomandandolo per una lunga vita e Ippocrate ne fece
una sorta di panacea trasversale, nella cura di molte malattie:leggenda
vuole che sulla sua tomba nidificassero api capaci di produrre un miele
dotato di straordinarie virtù terapeutiche, in segno di gratitudine e di
conferma per le sue teorie.
concretezza e della praticità furono, neanche a dirlo, i Greci prima e i
Romani poi, con l’ampio utilizzo che ne fecero in cucina: persino
Pitagora, altrimenti parco e inflessibile, cedette alle lusinghe di
questo nettare, raccomandandolo per una lunga vita e Ippocrate ne fece
una sorta di panacea trasversale, nella cura di molte malattie:leggenda
vuole che sulla sua tomba nidificassero api capaci di produrre un miele
dotato di straordinarie virtù terapeutiche, in segno di gratitudine e di
conferma per le sue teorie.
In una gara di golosità e di
piaceri,i Romani non poterono certo restare al palo: e ben presto, alle
prescrizione mediche che ne imponevano la regolare assunzione, si
aggiunsero anche le regole del galateo, che volevano che fosse degustato
almeno tre volte, durante il banchetto: all’inizio con il vino, a metà
con la pietanza principale e alla fine, in purezza, come digestivo.
piaceri,i Romani non poterono certo restare al palo: e ben presto, alle
prescrizione mediche che ne imponevano la regolare assunzione, si
aggiunsero anche le regole del galateo, che volevano che fosse degustato
almeno tre volte, durante il banchetto: all’inizio con il vino, a metà
con la pietanza principale e alla fine, in purezza, come digestivo.
A
detta di Apicio, autore del De Re Coquinaria,il principale trattato
sulla cucina dell’antica Roma, contare le ricette a base di miele era
l’equivalente di una odierna mission impossible: quelle più appetitose erano comunque il ghiro arrosto in salsa di miele, per il quale si strappavano i capelli tutti i commensali al tempo di Nerone, e i soliti intrugli a base di garum (la salsa di pesce antesignana della nostra colatura di alici). Alla fine, la scelta è caduta su un “tranquillo” budino, la Tiropatina, in cui il sapore del miele è accentuato dall’uso del pepe. Un po’ di restyling, per adattarlo ai nostri gusti ed eccolo qui…
detta di Apicio, autore del De Re Coquinaria,il principale trattato
sulla cucina dell’antica Roma, contare le ricette a base di miele era
l’equivalente di una odierna mission impossible: quelle più appetitose erano comunque il ghiro arrosto in salsa di miele, per il quale si strappavano i capelli tutti i commensali al tempo di Nerone, e i soliti intrugli a base di garum (la salsa di pesce antesignana della nostra colatura di alici). Alla fine, la scelta è caduta su un “tranquillo” budino, la Tiropatina, in cui il sapore del miele è accentuato dall’uso del pepe. Un po’ di restyling, per adattarlo ai nostri gusti ed eccolo qui…
“Accipies lac, adversus quod patinam aestimabis; temperabis lac cum melle quasi ad lactantia (id est lactaria), ova
quinque ad sextarium mittis sed ad heminam ova tria. In lacte
dissolvis, ita ut unum corpus facias; in cumana colas et igni lento
coques; cum duxerit ad se, piper aspergis et inferes“
quinque ad sextarium mittis sed ad heminam ova tria. In lacte
dissolvis, ita ut unum corpus facias; in cumana colas et igni lento
coques; cum duxerit ad se, piper aspergis et inferes“
(Apicio, De Re Coquinaria, libro VII, XIII, 7)
“Prenderai
del latte, quanto pensi che possa essere contenuto nella pentola che
avrai scelto; lo addolcirai col miele, come si fa per i dolci a base di
latte e aggiungi cinque uova, per un sestiario (500 ml), oppure tre, per
una emina (250 ml). Scioglile nel latte, in modo da ottenere un
composto omogeneo; filtrale in una terrina di cuma e fai cuocere a fuoco
lento; quando si sarà rappreso, cospargilo di pepe e servilo”
del latte, quanto pensi che possa essere contenuto nella pentola che
avrai scelto; lo addolcirai col miele, come si fa per i dolci a base di
latte e aggiungi cinque uova, per un sestiario (500 ml), oppure tre, per
una emina (250 ml). Scioglile nel latte, in modo da ottenere un
composto omogeneo; filtrale in una terrina di cuma e fai cuocere a fuoco
lento; quando si sarà rappreso, cospargilo di pepe e servilo”
Così
Apicio, nel De Re Coquinaria, il principale testo di gastronomia di
Roma antica giunto fino a noi- e così io, con tutte le modifiche del
caso
Apicio, nel De Re Coquinaria, il principale testo di gastronomia di
Roma antica giunto fino a noi- e così io, con tutte le modifiche del
caso
500 ml di latte fresco intero
5 uova
50 g di miele millefiori
Ratafià all’uva fragola
pepe lungo del Bengala
una punta di fecola, per addensare
Scaldare il latte col miele, a fuoco lento. Spegnere la fiamma, appena il miele si è sciolto.
Rompere
le uova in un piatto, sbatterle leggermente e versarle nel latte e
miele. Amalgamare bene il composto, con una frusta non elettrica,
filtrare con un colino e versarlo in 6 stampini di alluminio,
precedentemente imburrati.
le uova in un piatto, sbatterle leggermente e versarle nel latte e
miele. Amalgamare bene il composto, con una frusta non elettrica,
filtrare con un colino e versarlo in 6 stampini di alluminio,
precedentemente imburrati.
Mettere
gli stampini in una teglia riempita fino a metà con acqua calda ma non
bollente e infornare a 180 gradi, modalità statica, per 30 minuti
circa.
gli stampini in una teglia riempita fino a metà con acqua calda ma non
bollente e infornare a 180 gradi, modalità statica, per 30 minuti
circa.
Lasciar raffreddare prima di sformare
Per la salsa al pepe
Se
usate del ratafià, non serve farlo ridurre troppo, perchè il sapore
dolce è già molto intenso: basta scaldarlo sul fuoco, assieme a qualche
bacca di pepe del bengala (qualcuna è meglio spezzarla o addirittura
pestarla nel mortaio, se preferite un gusto più deciso) e una puntina di
fecola
usate del ratafià, non serve farlo ridurre troppo, perchè il sapore
dolce è già molto intenso: basta scaldarlo sul fuoco, assieme a qualche
bacca di pepe del bengala (qualcuna è meglio spezzarla o addirittura
pestarla nel mortaio, se preferite un gusto più deciso) e una puntina di
fecola
Se
invece usate un vino rosso liquoroso, tipo il Porto, sarebbe meglio
sacrificarne un po’ in cottura, per farlo ridurre quel tanto che basta
ad accentuare le note più morbide. La punta di un cucchiaio di fecola è
comunque necessaria, per farlo addensare.
invece usate un vino rosso liquoroso, tipo il Porto, sarebbe meglio
sacrificarne un po’ in cottura, per farlo ridurre quel tanto che basta
ad accentuare le note più morbide. La punta di un cucchiaio di fecola è
comunque necessaria, per farlo addensare.
Calcolate grosso modo 100 ml , per 6 stampini.
16 comments
Continuo a cucinare secondi e dolci con il miele… ora dovró provare anche questo! Oltre ad essere goloso la storia di questo dolce é davvero interessante! Adoro le tue introduzioni storiche!!!
Continuo a cucinare secondi e dolci con il miele… ora dovró provare anche questo! Oltre ad essere goloso la storia di questo dolce é davvero interessante! Adoro le tue introduzioni storiche!!!
Che meraviglia di post e che perla di ricetta!
Il tio post storico affascina come sempre e bello il budino che voglio fare subito,ho il pepe del bengala ma non ho la ratafià con cosa posso sostituirla?
Oh casèita!! Son sempre così interessant e scorrevoli i tuoi post "storici"… questa ricetta la provo e come Mapi…il pepe lungo non mi manca..ma vediamo se riesco a trovare anche quello specifico del Bengala 😉
Che interessante, Ale, la storia di questo budino ed il tuffo nel passato che ci hai regalato. Mi sta venendo voglia di ricominciare con il latino, o per lo meno, leggere Apicio!
L'avevo adocchiato come proposta dolce ma per i gusti dei miei commensali rischiava davvero di essere troppo dolce (Noi e il miele non andiamo molto d'accordo). Quindi sto valutando altre strade e meno male perchè come avrei potuto competere con la tua ricetta? Questa sfida per me è durissima.
Ogni volta resto sbalordita dalla tua cultura. E sì che ormai lo dovrei sapere!
Grande Apicio, indimenticato dai tempi del liceo. Prima o poi questo budino lo faccio. Quell'aggiunta di pepe mi pare diabolica 😀
Senza parole! In ammirazione!
Me lo sono letto in un fiato. Sai quanto amo la storia di un piatto.
E le tue modifiche, non ne parliamo 🙂
Però quel libro non cel'ho. devo rimediare assolutamente.
bello! bello! bello!
una vera mielizia e che sapienza i nostri antenati, una punta di pepe per rompere con la dolcezza, fantastico!
Mamma mia, la mia proposta!!!!
Divoro il De Re Coquinaria di continuo e proprio questo budino leggermente rivisitato, ha ispirato la mia proposta!!!!
non ci credo 🙂
Le storie legata al cibo più sono antiche e più mi appassionano, starei delle ore a leggerle. E il miele così presente fin dalla notte dei tempi, è un vero peccato che sia passato in secondo piano. Questo budino deve essere delizioso, e la salsa al ratafià e pepe mi fa impazzire!
Fantastica Ale, mi piace la ricetta di questo budino e la salsa al pepe mi fa impazzire.
Ora dovrò cercare il pepe del Bengala… o è la stessa cosa del pepe lungo? Perché in tal caso ce l'ho… 🙂
stessa cosa.
e non avevo dubbi sulla fornitura della tua dispensa 🙂
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