Home c'era una volta MTC N. 30 – Puglia: riso, patate, cozze… storia e geografia

MTC N. 30 – Puglia: riso, patate, cozze… storia e geografia

by MTChallenge

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La taieddhra è un piatto pugliese di riso cozze e verdure. Vede sul territorio infinite varianti locali e familiari ma fondamentalmente è costruito da cinque ingredienti imprescindibili: il riso, le patate, le cozze, la teglia di coccio ed il forno. E magari qualcuno si chiede: perché?!

Perché ognuna di queste componenti è parte integrante della cultura della taieddhra, nel senso in cui la intende lo storico Massimo Montanari nel suo libro “Il cibo come clultura”: ciò che chiamiamo ‘cultura’ si colloca al punto di intersezione tra tradizione e innovazione. E’ tradizione in quanto costituita dai saperi, dalle tecniche, dai valori che ci vengono tramandati. E’ innovazione in quanto quei saperi, quelle tecniche e quei valori modificano la posizione dell’uomo nel contesto ambientale, rendendolo capace di sperimentare attività nuove. Innovazione ben riuscita: così potremmo definire la tradizione. La cultura è l’interfaccia tra le due prospettive.

Il problema è che quando si parla della “tradizione” ci si riferisce solitamente alla geografia d un piatto più che alla sua storia. Così si crede che per chi non vive in quelle terre, non ha a disposizione quei prodotti e non è cresciuto tra quelle sapienze, preparare un piatto “autentico” che racconti esattamente quella storia e quella geografia sia un’impresa disperata. Ma cosa si intende esattamente per autenticità?

Spiega Montanari: ricostruire la ricetta ‘autentica’ sarebbe una velleità contraria non solo all’arte della cucina che è innanzitutto arte dell’invenzione, ma anche allo spirito più autentico – questa volta sì – della tradizione storia a cui vorremmo riferire i nostri esperimenti. E continua con un esempio storico: La quantità incredibile di varianti che si trovano nei ricettari medievali per vivande dal medesimo titolo non è solo espressione di varietà regionali o locali […] ma è anche la metafora del principio-base che ogni bravo cuoco, non solo nel Medioevo, dovrebbe seguire: ‘Per queste cose che dette sono’ recita un testo italiano del Trecento, ‘il discreto cuoco potrà in tutte le cose essere dotto, secondo le diversità dei regni, e potrà i mangiari variare o colorare secondo che a lui parrà.’

Storicamente i piatti legati ai prodotti locali evidentemente esistono da sempre. Da questo punto di vista la cucina è per definizione territoriale […Però] la conoscenza del territorio, degli ambienti, delle risorse locali […] non si inserivano affatto in una ‘cultura del territorio’, in una volontà di ‘mangiare geografico’. Per la gente comune era una scelta di consumo istintivo ed inconsapevole, per le classi agiate era semplicemente un accumulo di golosità da affiancare a specialità di altre proveniente in modo da sottolineare l’abbondanza e la varietà della propria tavola. Ma la cucina di territorio annullava di fatto le distanze sociali, dunque non è affatto un concetto antico ne’ “storico”. Quindi cosa si po’ considerare “tradizionale” o “locale” nel senso di identitario?

Gli ingredienti e le preparazioni caratteristiche di un territorio nell’arco del tempo si sono modificati per le cause più diverse: una carestia obbligava a sostituire il prodotto che scarseggiava all’interno dello stesso piatto con qualcosa di più facile reperibilità (il pane di castagne o di radici quando non c’era grano), con relativa evoluzione di tecniche e di sapori, oppure costringeva a cambiare totalmente riferimento nei consumi (a Napoli nel’600 si passa da un’alimentazione a base di carne e verdure ad una a base di pasta).

Altre volte sono le novità arrivate da altri Paesi a mutare i costumi alimentari, come con l’eclatante esempio dei prodotti americani, con cui si manifesta la capacità dei sistemi alimentari di cambiare e al tempo stesso riaffermare la propria identità, rigenerarsi con apporti esterni, incorporare l’ignoto assimilandolo a sé – un meccanismo ben noto, sul piano psicologico oltre che culturale.

E torniamo allora all’iniziale definizione di cultura: le identità culturali non sono realtà metafisiche (lo “spirito dei popoli”) e neppure sono inscritte nel patrimonio genetico di una società, ma si modificano e si ridefiniscono incessantemente, adattandosi a situazioni sempre nuove determinate dal contatto con culture diverse.

In questo senso, tornando per esempio alla nostra taieddhra, mentre i tegami di coccio, i forni a legna e l’allevamento delle cozze sono tradizioni che si perdono nella notte dei tempi, quindi diciamo tranquillamente “autoctone”, il riso fu portato in Europa dagli Arabi ed arrivò in Puglia a partire dal ‘500 attraverso la dominazione spagnola, mentre le patate provenienti dall’America (come pure i pomodori i peperoni o i peperoncini, protagonisti di altri piatti “pugliesi”), si inserirono con grande facilità dopo il ‘700 in una gastronomia avvezza all’utilizzo di farinacei e verdure.

Nella visione più conservatrice della cucina le nozioni di identità e scambio vengono spesso contrapposte come se lo scambio, ovvero il confronto tra identità diverse, mettesse in pericolo il principio dell’identità. Ma proprio la taieddhra è l’esempio dello sviluppo di una “tradizione” decisamente lontana, sia geograficamente che storicamente, dai luoghi di “origine” delle sue componenti. E dunque esperssione di una identità nata dalla somma di altre identità.

Partendo da questo presupposto anche ogni possibile sviluppo dello stesso piatto sencondo versioni che non sono quelle canoniche fa parte di un medesimo percorso di sperimentazione, se non obbligatoriamente di evoluzione. Ripetere in cucina la versione “attuale” di un piatto è un importantissimo segno di rispetto sia storico che geografico di quella “identità”. Capire il senso della sua formazione, della sua evoluzione, della sua “contaminabilità” è un’altra indispensabile forma dello stesso rispetto.

Probabilmente, in realtà, l’individuazione delle radici non deve cercare il punto di partenza di una tradizione gastronomica che arrivi fino al piatto che oggi conosciamo. Siamo noi il punto fisso da cui si dirama un’intricatissima storia di scambi, relazioni, coincidenze e tipicità: l’identità non esiste all’origine, bensì al termine del percorso.

E proprio questa è la conclusione a cui arriva Massimo Montanari: raffiguriamoci la storia della nostra cultura alimentare come una pianta che “si allarga” (non: si restringe) a mano a mano che affonda nel terreno, cercando linfa vitale fin dove riesce ad arrivare, insinuando le sue radici (appunto) in luoghi il più possibile lontani, talvolta impensabili. Il prodotto è alla superficie, visibile, chiaro, definito: siamo noi. Le radici sono sotto, ampie, numerose, diffuse: è la storia che ci ha costruiti.

 

Acquaviva- Acquaviva Scorre

Tutte le citazioni in corsivo sono tratte da: Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, 2004, ISBN 88-420-7966-9.

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