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Invasa da Romani, Visigoti, Arabi e Carolingi, sposata ma “separata in casa” con il Regno di Aragona, la Catalogna ha una storia impegnativa, che l’ha portata a dominare il Mediterraneo con la propria flotta, a combattere i Mori, ad assicurarsi il dominio di Sicilia, Sardegna e Napoletano. In costante lotta con i Castigliani, prima territorio annesso e poi vicino scomodo dei Francesi, la Catalogna ne ha accolto comunque storicamente gli emigranti, ospitando anche nel tempo Italiani, Andalusi, Galiziani e Nordafricani.
Nonostante tutte queste vicende la gente catalana è talmente ancorata alle proprie radici da riuscire ad assorbire il meglio delle culture con cui è entrata in contatto e rimanere comunque sempre fedele a se stessa.
La cucina catalana, allo stesso modo, prende il meglio del suo difficile territorio, montano a nord e aspramente marino a sud, e delle tradizioni di confine, i semplici profumi di Provenza da un lato e le barocche complessità dei cibi valenciani dall’altro, così come dalle innovazioni arrivate con i nuovi ingredienti americani. E miscela tutto in uno stile unico e personale, indiscutibilmente catalano. Un detto popolare sostiene che i Catalani “trasformano le pietre in pane”…
Il segreto è la seny, la “saggezza” catalana: in una terra di lotte e di banditi, di incontri dolci e duri, di gente fiera e fantasiosa, la “ragione” (ovvero la somma di consapevolezza, attenzione, ponderatezza, rettitudine, intuitività, rispetto, cura) riesce a conferire una logica a quell’anarchica arte di arrangiarsi che è la cucina di Catalogna, trasformandola in identità e, per alcuni, in arte.
Esempio perfetto di questa identità è l’uso catalano della pasta… Ma facciamo un passo indietro: in Catalogna la pasta arriva dapprima con gli Arabi e diviene parte stabile dei commerci con i latifondisti siciliani e napoletani durante il Regno di Aragona. Ma nella cucina popolare non è tanto diffusa e le si preferisce decisamente il riso.
Avviene però che nel 19° secolo Barcellona conosca il boom economico grazie ad una floridissima produzione nel settore tessile. Il benessere investe le classi agiate, che rinnovano le abitazioni, si rifanno il guardaroba e si dedicano con impegno a fare vita di società, frequentando con assiduità caffè e locali. Insomma sviluppano velocemente molte nuove forme di consumo, e la cosa attira imprenditori e commercianti anche da lontano. Ed ecco che arrivano, tra gli altri, cuochi italiani a cucinare nei ristoranti e orologiai svizzeri ad aprire gioiellerie.
Qualcuno dice che gli Svizzeri non apprezzassero la cucina locale e che per questo abbiano dato lustro al Café Suiso, facendone il ristorante meglio frequentato della città, qualcun altro sostiene che il locale più alla moda fosse la Maison Dorée in Plaza de Cataluña; fatto sta che la specialità di questi nuovi ristoranti, quella che mandava in visibilio la clientela locale, erano dei cannelloni ripieni coperti di besciamella, all’epoca considerati una complessa raffinatezza della cucina francese…
Detto fatto: uno chef svizzero-italiano allievo di Escoffier, tale Joseph Rondissoni, organizza dal 1924 al 1931 dei corsi per insegnare alle “signore bene” i segreti delle ricette di pasta, perché potessero controllare che le loro cuoche li preparassero alla perfezione. Poi, per completare l’opera, fonda la rivista per “ottime padrone di casa” Menage e, appena terminata la Guerra Civile, nel 1945 pubblica il libro Culinaria, con un capitolo intero su pasta e cannelloni (… di cui la sesta edizione vede la prefazione di Manuel Vasquez Montalban!)
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Altre ricette di pasta sono state pubblicate qualche anno prima anche da Ignasi Doménech, uno dei fondatori della cucina catalana moderna, a testimonianza che in quel periodo un ingrediente fino a quel momento abbastanza ignorato come la pasta vede la propria fama decisamente in rialzo.
La conseguente esplosione del consumo di pasta ha come effetto il boom delle importazioni. All’epoca la marca più di moda in Catalogna è la francese La Poule (“il pollo”), che vende in specifico i cannelloni come un bene di lusso, avvolti separatamente in sottili fogli di tessuto rosa dentro costose confezioni da 16 pezzi.
L’imprenditore barcellonese Ramon Flo, che già aveva fondato una fabbrica di pasta nel 1911, trova il sistema di produrli altrettanto bene ma a prezzo inferiore e li commercializza con il marchio El Pavo (“il tacchino”…). Ha talmente successo che nel giro di qualche anno sbaraglia qualsiasi concorrenza ed i suoi cannelloni diventano il piatto tipico da servire a Santo Stefano nelle “case eleganti”, al posto del precedente tradizionale piatto di riso condito con gli avanzi del cenone di Natale.
Con gli anni ’60 non solo i cannelloni entrano nella tradizione di Santo Stefano per tutte le classi sociali, ma il marchio El Pavo diventa oramai per i Catalani sinonimo di “pasta di qualità”. Se questa non è identità catalana… Alla faccia degli Arabi, degli Italiani, degli Svizzeri e pure dei Francesi!
Ma la cucina catalana, si diceva, per alcuni è anche arte. Senza entrare nel merito di ciò che ha combinato Ferran Adrià e tutta la generazione di chef catalani contemporanei, faccenda che meriterebbe una serie di considerazioni tali da riempire un tomo alto almeno quanto i tre libri neri de El Bulli messi insieme…
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Pensando all’arte non mi riferisco al pensiero non di un “addetto ai lavori” catalano ma ad un esponente di rilievo della cultura artistica non solo catalana ma mondiale. Tutto ciò che è catalano, ad esempio, è intrinsecamente artistico e indissolubilmente legato al cibo secondo Salvador Dalì, celeberrimo figlio dell’Empordà.
Moltissime opere di Dalì raffigurano alimenti, surreali simboli del suo modo di “mangiare” la vita, che a suo parere è anche l’unico modo per viverla: “Ho detto frequentemente che gli organi più filosofici dell’uomo sono le sue mandibole. […] Perché è proprio nel momento in cui si arriva al midollo di qualcosa che si scopre il sapore stesso della verità, la nuda e tenera verità che emerge dal pezzo dell’osso fermamente tenuto fra i denti.”
Salvador Dalì parlando del genio artistico dice: “ Per essere Dalì occorre prima essree catalano, ossia essere pronti per il delirio, la paranoia e vivere tutto ciò come fanno i pescatori di Cadaqués, che sugli angeli barocchi e splendenti dell’altare della loro chiesa appendono aragoste vive per far sì che l’agonia di questi animali permetta loro di seguore meglio la passione della santa messa.”
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E ancora:”Accade che io dò […] a tutto ciò che ha a vedere più o meno direttamente con il cibo, valori essenziali di ordine morale ed estetico. […] Mi piace mangiare soltanto cose dalla forma ben definita, che l’intelligenza possa afferrare. Detesto gli spinaci per il loro carattere assolutamente amorfo […] Direttamente opposta agli spinaci è l’armatura. Ecco perché mi piace tanto mangiare armature, e specialmente le piccole varietà, ossia i crostacei. […] In questo modo il crostaceo può, con le armi della sua anatomia, proteggere il molle e nutriente delirio del suo interno, tenerlo protetto contro la profanazione”.
Il cibo, la sua raffigurazione, il suo consumo, le suggestioni che da esso derivano non sono per Dalì cose separate… Quando gli chiedevano come mai nelle sue opere fossero presenti tanti riferimenti gastronomici lui rispondeva: “Io non posso che dipingere che attraverso certi sistemi di delirii della digestione”… Così un pomeriggio estivo del 1933, mentre Dalì si attardava a tavola dopo il pranzo, il formaggio avanzato che non era stato ritirato cominciò a fondersi davanti ai suoi occhi per il caldo.
“Rimasi per lungo tempo a meditare sui problemi filosofici del ‘supermolle’ che quel formaggio rappresentava nel mio spirito”. Quella pasta chiara che con passare dei minuti perdeva la propria forma originale stava diventando nella mente di Dalì il simbolo del tempo che si dilata secondo le nostre aspettative. Quello stesso giorno Dalì dipinse il suo primo “orologio molle”, raffigurato nel celeberrimo quadro La percezione della memoria.
Le uova hanno sempre rappresentato per lui invece l’utero femminile e più in specifico la vita intrauterina, tanto che sosteneva di ricordare il suo periodo prenatale in cui, all’interno del grembo materno, lui stesso come massimo momento di benessere visualizzava delle uova fritte: “Le uova fritte in padella, senza la padella, che vedevo prima di nascere erano grandiose, fosforescenti e molto dettagliate nelle piegature dei loro albumi lievemente azzurri.”
Per questa forte connotazione simbolica Dalì, oltre a riprodurre nelle sue opere uova di ogni tipo, mise anche delle enormi riproduzioni di uova sode sopra il tetto del suo Teatro-Museo di Figueres. Sulle pareti esterne dello stesso museo, invece, dipinte di un brillante color fucsia, fece posizionare ordinatamente, ad imitazione della bugnatura dei palazzi rinascimentali italiani, migliaia di simulacri del tipico pa de crostons dell’Empordà, un pane di forma triangolare, per creare “una casa con la facciata con la pelle d’oca” che ricordasse anche i gusci dei ricci di mare, di cui era golosissimo.
Quello streso pane triangolare era da lui spesso svuotato al centro e portato in testa come un cappello da torero, diventava insieme una protezione ed un vanto… Ed il pane in generale appare posato sulla testa di tanti personaggi raffigurati nei suoi quadri. Il significato di questo cibo per Dalì era infatti altissimo: costituiva il simbolo della vita terrena ed insieme di quella divina, “l’ostia, l’immagine della fame soddisfatta, il frutto del lavoro, la base della comunione tra gli uomini”.
Talmente importante da progettare una “rivoluzione del pane” in cui l’alimento “di utilità primordiale, simbolo della nutrizione” sarebbe diventato un oggetto surrealista “inutile ed estetico”. Non più risposta alla fame ma un pane rimodellato, inventato: “Il mio pane ferocemente antiumanitario era il pane della vendetta del lusso immaginativo contro l’utilitarismo del razionale mondo pratico”. Dalì pensava di far preparare dei filoni di pane da 15 a 40 metri ed abbandonarli in luoghi pubblici in tutto il mondo, per creare nella gente curiosità e sconcerto ed attentare al significato logico del mondo quotidiano…
Ma Dalì era anche un vero goloso, che annotava il ricordo di un pasto particolarmente gustoso, invitava compagnie di amici a pranzo sia casa che nei ristoranti della zona, si rilassava pescando e poi cuocendo sardine sulla brace, chiacchierava di cucina con la cuoca che lo serviva quando la moglie era lontana, cuoca di cui citava spesso una frase:“Per fare un buon dentice alla marinara occorrono tre tipi di persone: un pazzo, un avaro e un prodigo. Il pazzo deve tenere vivo il fuoco, l’avaro mettere l’acqua e il prodigo l’olio.”
Nelle sue numerose opere letterarie cita sovente ricette e consigli di cucina, tipo: “I catalani hanno una maniera di condire le fave che fanno di queste uno dei miei piatti preferiti. Per ottenerlo si devono cucinare con prosciutto e botifarra e il segreto risiede nell’aggiungervi alcune foglioline di lauro e un po’ di cioccolato.” Purtroppo non risulta niente di specifico sulla fideuà, ma secondo la testimonianza del proprietario dell’hotel Duran di Figueres del cui ristorante Dalì era un assiduo frequentatore, sembra che paella e fideuà fossero i piatti che preferiva ordinare, anche perché non troppo costosi, quando offriva la cena a numerosi invitati… Ed il tocco speciale di quella fideuà erano un pizzico di paprica dolce insieme allo zafferano e una breve gratinatura in forno prima del servizio.
Acquaviva- Acquaviva scorre
Bibliografia:
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AA.VV., Cocina Regional Espaņola, Editorial Everest, 1994, ISBN 84-241-2314-X
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Marina Cepeda Fuentes, Il surrealismo in cucina tra il pane e l’uovo. A tavola con Salvador Dalì, Il Leone verde edizioni, 2004, ISBN 88-87139-64-4
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Marion Trutter (cura), Spagna. Una festa gastronomica, Könemann, 2000, ISBN 3-8290-4194-2
9 comments
Acquaviva… tu non senti i miei singhiozzi, applausi e sorrisi, ma il cozzaro stà pensando do portarmi al pronto socorso….!
Ho paura della tua fideuà….
Sei spaziale!
Ok, quando lo mandate in stampa?
Annalena,take a bow!! Un post da stampare e mettere da parte.
Dali era senz'altro ossessionato dai filoni di pane,ci faceva anche le conferenze stampa!Dopotutto,ci sono ossessioni peggiori…
mamma mia che ricerca! bravissima veramente!!! mi è molto piaciuto la parte su Dalì, ed in effetti, come poteva mancare lui questo mese? arte e cucina sono sempre state legate, anzi la cucina E' una forma d'arte !
Spettacolare!!! Da leggere e rileggere!!! Soprattutto di domenica dopo le pulizie domestiche, con una tazza fumante di caffè in mano…
Ale…ora mi vergogno del mio post…qui siamo ad altissimi livelli!!
ma figurati un po', se ti devi vergognare!!! anzi: zitta, che rovini la sorpresa!! 🙂
Riprovo a commentare che prima non ci son riuscita 🙂
Me-ra-vi-glio-so! Annalena, sei davvero grande!
che bello traccheggiare la mattina di domenica concedendosi il lusso di ore di lettura ancora in pigiama soprattutto se le letture sono di questo genere!!
Grazie
Cris
Mamma mia,ragazzi, che livello!
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