Qualche anno fa, avevo suscitato l’ira funesta e scomposta di un manipolo di giornalisti, avendo osato dichiarare davanti a loro che il più grande food writer del nostro tempo era Anthony Bourdain. Ciò che più mi aveva colpito dell’episodio non era stata tanto la reazione (non proprio prevedibile, ma comunque messa in conto), quanto semmai il fatto che quasi tutti quelli che si rivoltavano contro il mio giudizio a malapena conoscessero il personaggio di cui si stava parlando. Fra il pubblico serpeggiavano molti interrogativi (“chi è?” su tutti) e la risposta più precisa che veniva data era un generico “quell’americano, quello di LaEffe” che la diceva lunga sull’ignoranza in materia. Qualcuno, dall’alto della sua superiorità, aveva anche fatto dell’ironia sul cognome, storpiandolo in Boudin e attirandosi immediatamente le simpatie di tutti gli offesi, grati alla battuta che spianava la strada a quei sorrisini di compatimento rivolti alla sottoscritta che siglarono la fine del dibattito (e di ogni altro futuro rapporto, saluti di buona creanza compresi)
Le testate su cui questi stessi giornalisti scrivevano all’epoca (e forse scrivono tuttora, chi lo sa) fanno parte del coro di cordoglio che, in questi giorni, ha commemorato la morte di Anthony Bourdain come la perdita di un geniale e straordinario comunicatore in fatto di cibo. La faccenda si sarebbe potuta benissimo chiudere qui, senza nemmeno un “cosa vi avevo detto?” da parte mia, se non fosse che la gran parte della comunicazione, più o meno autorevole, ha subito preso la deriva più patetica, più desolante, più irritante, che è quella della spiegazione del gesto suicida che ha portato Bourdain alla morte.
La parte più eclatante- mi si passi l’aggettivo- è quella che ruota attorno alla constatazione che “avere tutto” non basti per evitare di odiare la vita, fino al punto di togliersela. “Aveva tutto, perchè lo ha fatto?” e “Non basta avere tutto per non farlo”, sono i due poli in cui si consuma, assieme alle riflessioni sul tema, anche il sacrificio dei valori del nostro tempo, quello per cui il tutto coincide con il successo e la popolarità. A leggere le bacheche di FB e di Twitter in questi giorni, sembra quasi che non ci sia una vita reale dietro le telecamere, non ci siano affetti, emozioni, debolezze, frustrazioni, momenti di tristezza e anche di disperazione. Se appari, se sei visibile, se hai popolarità, sei automaticamente felice, soddisfatto e appagato, in barba a quella intricata, meravigliosa e drammatica faccenda che è l’essere stesso dell’umanità, mente, anima e spirito inclusi.
Non stupisce quindi che per manifestare il proprio cordoglio, sia stato scomodato Kitchen Confidential, l’opera più emblematica fra le tante, bellissime cose da lui scritte, appiattendone la grandezza con una litania di citazioni (mi correggo: di citazione, sempre quella è) che non rende giustizia nè a questo capolavoro nè al suo stesso autore.
Intanto, perchè Kitchen Confidential è molto più di un libro sui cuochi: è una sorta di affresco tragico e drammatico, un libro epico, in cui il protagonista si fa nel contempo narratore di un mondo di cui fissa, attraverso la narrazione, valori, disvalori e archetipi. In KC Bourdain è Il cuoco, cosi come Salinger era stato l’adolescente ed Harper Lee La bambina, in storie che sono il pretesto per raccontare processi di formazione, diversi nei dettagli ma uguali nell’affrontare i grandi temi della vita dell’Uomo, rielaborandoli in contenuti sempre attuali, capaci di far vibrare le corde dell’animo di tutti i lettori, in ogni tempo e in ogni luogo.
Tuttavia, a differenza dei due autori citati, Bourdain non si è fermato al suo capolavoro. All’ombra della gloria imperitura che gli sarebbe spettata di diritto, ha preferito la luce livida e impietosa della presa diretta con cui è partito per una nuova avventura, quell’ A Cook’s Tour che è stato la successiva grande sfida di una genialità incontenibile e una vera rivoluzione nella comunicazione del cibo, televisiva e letteraria. La scelta di cercare il cibo perfetto in giro per il mondo, girando in presa diretta, con la videocamera a mano e la troupe assoldata quasi interamente sul posto, per immergersi in modo pieno e totale nelle culture locali, ha fatto di A Cook’s Tour il più grande esempio di “rockumentario” sul cibo che fosse mai stato girato prima di allora e un modello con cui confrontarsi costantemente da allora in poi.
Per quanto validi possano essere stati i prodotti di imitazione, però, nessuno di loro è riuscito a riprodurre lo stesso sguardo del loro punto di riferimento: che non era quello del documentarista o del senplice curioso, ma quello del tutto intimo e speciale che l’amante riserva a chi ama. L’amore che Bourdain nutriva per il cibo era tale che per quanto estreme fossero, le sue esperienze, mai ci furono orrori da gustare, tecniche da criticare, tradizioni da condannare. Ogni pratica, anche la più sanguinaria o la più truculenta, trovava la sua sublimazione nel gesto atavico e intimamente umano della nutrizione, trasformando questa ricerca del cibo perfetto in un altro grande affresco dell’umanità a cui egli tributava ogni volta un segno d’amore, attraverso l’amore riservato ai cibi e ai piatti che via via incontrava.
E’ per questo che ricordare Bourdain con una citazione è qualcosa che fa lo stesso sgradevole effetto dei tentativi saccenti di spiegare il suo suicidio. Circoscrivere la grandezza in un limite è una pretesa che non ci compete, oltre che il modo migliore per enfatizzare le distanze fra noi, poveri mortali, e questi grandi che ogni tanto incocciano il nostro cammino.
Piangiamolo per come possiamo, per quello che possiamo: per quello che ci ha dato, per come ce lo ha dato, con generosità, irriverenza, onestà intellettuale , curiosità. Piangiamo la perdita di una intelligenza coraggiosa, di uno slancio senza filtri, di un personaggio cosi verosimile da farci pensare, tante volte, troppe volte, che fosse davvero meravigliosamente reale. Piangiamo quell’Anthony Bourdain che abbiamo conosciuto, letto, seguito e amato, in questi ultimi vent’anni, lo scrittore di talento, il narratore sensibile, lo sperimentatore indefesso, il comunicatore empatico, l’ uomo bellissimo, capace di fare le peggiori cose senza perdere un briciolo di quella classe che è stato un altro dei suoi inconfondibili tratti.
Ma, per tutto il resto, lasciamolo in pace.
2 comments
Ho amato questo testo. Adesso molti incominceranno a leggerlo. Beati noi che lo abbiamo già fatto.
Molto toccante il tuo saluto/omaggio verso questo narratore del cibo così unico nel suo genere. Confesso la mia ignoranza e vedo di porvi rimedio 😉
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