Il pesce del lago di Chiusi
Tutti bravi a fare i fighi col pesce di mare, ma se il mare è lontano? E se invece vicino a voi avete un bellissimo lago placido, ricco e pescoso, come la mettiamo?
Il pesce di lago non ha certo le attrattive di quello di mare, anzi, oggi è ormai relegato a preda da pesca sportiva, come se non fosse degno di finire sulle nostre tavole. Eppure non è sempre stato così. Questa caduta in disgrazia è un fenomeno recente, che ha preso campo da quando la filiera alimentare ha annullato le distanze e qualsiasi prodotto è diventato disponibile ovunque. Ma fino a poco tempo fa i laghi erano un’importante risorsa, generosi fornitori di cibo, che la fame e l’ingegno combinati insieme sapevano far fruttare al meglio.
Ne è un esempio – uno tra tanti – il lago di Chiusi, cui io sono particolarmente affezionata. Per secoli, più che un lago è stato un tratto di un’unica grande area paludosa, che interessava la Valdichiana senese e che solo i Lorena hanno saputo bonificare in via definitiva nella seconda metà dell’Ottocento.
Oggi, insieme al lago di Montepulciano, cui è collegato da un canale, forma il complesso dei “Chiari”, come li chiamano gli abitanti locali.
Per tutto il Novecento tante famiglie hanno vissuto sui proventi della pesca professionale, oltre che sulla lavorazione delle erbe palustri per le attività di impagliatura. Un’attività faticosa e dura, dagli esiti incerti e dai magri guadagni. Si pescava quasi esclusivamente con le reti (i cosiddetti tofi o nasse), posizionate in punti strategici e controllate quotidianamente, spesso anche durante la notte.
Fonte di sostentamento ed elemento caratterizzante del paesaggio, il lago ha permeato la piccola comunità di Chiusi nei modi di dire e di pensare, nelle leggende, nelle abitudini e – ovviamente – nella cucina. Il pesce era una componente importante dell’alimentazione locale e alla base di molti piatti tipici che oggi rischiano di cadere nel dimenticatoio.
I due che vale la pena citare, perché legati indissolubilmente al lago di Chiusi, sono il brustico e il tegamaccio. Nel primo caso è evidente sin dal nome che la cottura avviene sul fuoco vivo, per “abbrustolire” il pesce. Una volta era il pranzo dei pescatori che, rientrati a riva, accendevano un fuoco con canne di lago e vi gettavano sopra il pesce (in genere persici o lucci) così com’era, senza squamarlo né eviscerarlo. Si puliva dopo, raschiandolo, e si condiva con semplice sale, olio e aceto.
Il tegamaccio è invece una zuppa che veniva fatta con quello che si pescava in giornata (tinca, anguilla, carpa, luccio, persico) e cotta in un enorme tegame di coccio, a fuoco lento, senza mai mescolare, per non rompere i tranci di pesce.
Oggi la pesca professionale non si pratica più, la via più facile per procurarsi del pesce è rivolgersi ai pescatori del Trasimeno ed è sempre più difficile trovare qualcuno che apprezzi questi piatti e li sappia cucinare a regola d’arte.
Negli ultimi anni, del resto, anche il lago ha subito grandi cambiamenti e la sua popolazione ha mutato composizione.
A causa di attività di ripopolamento autorizzate – ma scarsamente controllate – e delle esigenze della pesca sportiva, a partire dagli anni Novanta sono state introdotte nuove specie di provenienza esotica: latterini, persico-trota, pesce gatto, carassio. Il processo si è andato accentuando a velocità sempre maggiore negli ultimi anni, quando si sono diffusi – tra gli altri – i gamberi rossi della Louisiana, noti anche come gamberi killer.
Di origine mesoamericana, questi gamberi si sono ormai acclimatati ovunque, ma sono così aggressivi e invasivi che mettono a repentaglio la sopravvivenza di altre specie e di tutto l’ecosistema che per secoli si è autoregolato: le rane sono state le prima a soccombere di fronte ai gamberi killer ma anche gli altri pesci non se la passano bene.
Al di là dell’evidente problema di carattere ambientale, che comportamenti non regolati e poco responsabili possono creare – e che non è questa la sede per affrontare – la presenza di queste nuove specie può rappresentare una sfida per chi continua a credere nel valore culturale e alimentare del pesce di lago, così che accanto alle ricette della tradizione ne possono nascere di nuove.
Gianna Fanfano, chef del ristorante Pesce d’oro, situato sulle sponde del lago di Chiusi, quando parla del “suo” pesce si illumina. Perché è facile, dicevamo all’inizio, fare un buon piatto con il pesce di mare, ma il pesce di lago bisogna saperlo trattare, vezzeggiare, quasi addomesticare per ottenere un piatto a prova di gourmand.
Gianna lo conosce, lo rispetta, ne riconosce il valore culturale e affettivo che stanno dietro al mero valore gastronomico, e riversa questa ricchezza di contenuti nei suoi piatti.
Nel corso di un recente blog tour, promosso dal Calendario del Cibo Italiano e patrocinato dall’Amministrazione Comunale di Chiusi, ho avuto la possibilità di vederla all’opera e di assaggiare i suoi piatti, in un confronto diretto tra tradizione e innovazione.
Ci ha mostrato dal vivo la cottura e la preparazione del brustico, un’operazione che ho sempre creduto lunga e laboriosa, nei suoi gesti esperti è diventata la cosa più semplice del mondo.
E poi ha cucinato con noi due piatti di sua elaborazione: una tartare di boccalone, che mai avrei pensato potesse essere così delicato, e i famigerati gamberi killer presentati in una sorta di moderno cocktail, accompagnati da una crema di fave, stracciatella freschissima e sottili fettine di pesca.
Come dire che il pesce di lago è un tesoro nascosto tutto da scoprire.