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Ogni volta che uno studioso di alimentazione si trova a parlare di pesce, non può che pensare alla frase di Jean- Louis Flandrin che, riferendosi proprio al ruolo avuto da questo ingrediente nella storia del cibo, parla di uno “stato ambiguo”.
L’ambiguità è infatti la cifra che meglio ne definisce la funzione nel sistema culturale per cui il cibo cessa di essere un semplice mezzo di sostentamento e diventa invece un modo per comunicare a se stessi e agli altri uno status o un concetto: e questo in relazione ad un alimento diffusissimo e relativamente semplice da cucinare, che in teoria avrebbe potuto essere una risorsa costantemente condivisa da tutti gli strati della popolazione, nei vari secoli.
“Keep calm e mangia il pesce” sarebbe quindi dovuto essere l’imperativo della storia del cibo, con buona pace di tutte le categorie impegnate in questo settore- ricchi e poveri, potenti e deboli, Nord e Sud, coste e interno e via dicendo. Se così non avvenne, invece, fu proprio a causa di quelle sovrastrutture di tipo culturale che, sommate ad alcune problematiche oggettive, legate principalmente alle difficoltà di conservazione di questo alimento, resero il mangiare pesce una faccenda tutta peculiare.
Di solito, neanche a dirlo, si danno tutte le colpe alla Chiesa: chi, se non i preti, furono quelli che introdussero la distinzione del mangiare di magro, a dispetto di una religione che non conosceva nessun tabu alimentare e a sottrarlo in questo modo a quella dimensione di “normalità” che gli sarebbe appartenuta di diritto?
Tuttavia, nei fatti, l’interpretazione non è completamente corretta: perché già in epoca classica, le diverse specie del mare erano nettamente distinte fra “ricche” e “povere”, senza lasciar spazio a quella sana via di mezzo che della normalità è l’espressione più immediata e più piena. I poveri mangiavano sardine, i ricchi storione, il popolo pesce azzurro, i potenti pesce bianco e via dicendo- e tutto questo non faceva che alimentare diffidenza verso un alimento il cui consumo tutto era fuorché “normale”
A peggiorare le cose, ci si mise poi la successiva identificazione come cibo di purificazione e di penitenza, in netta opposizione alla carne: tanto questa rappresentava il trionfo della corporalità e delle cose mondane, intese in tutti i loro aspetti, da quelli più istintuali come il sesso a quelli più sociali come il potere, quanto il pesce l’esatto contrario: la rinuncia, l’abnegazione, il sacrificio, in quella continua dicotomia fra la carne e lo spirito che nel campo dell’alimentazione si polarizzò presto attorno a questi cibi.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, perchè proprio il pesce e non , magari, le verdure o le uova o i legumi o altri prodotti che non implicavano una morte cruenta. Anche in questo caso, la risposta giunge al termine di un lungo percorso di riflessione che parte da una esclusione pressochè totale di tutti i cibi animali, dalla dieta “di magro”, per poi aprire ai pesci, con un atteggiamento di tacita tolleranza, che non lo prescrive ma nepppure lo vieta. A partire dal IX- X secolo, “ non ci sono più dubbi nell’ammettere la liceità del consumo di pesce durante i giorni di astinenza. Dalla dieta quaresimale vengono esclusi solo i pesci cosiddetti “grassi” cioè gli animali marini di grandi dimensioni… la cui polpa appariva troppo simile alla carne degli animali terrestri, forse soprattutto per l’abbondanza di sangue. A parte tale eccezioni, il pesce (e tutto ciò che viveva nell’acqua) assunse da allora, in modo sempre più netto ed inequivocabile, la fisionomia culturale di alimento magro. diventò il simbolo della dieta monastica e della rinuncia quaresimale. La sua opposizione alla carne, inizialmente sfumata, se non addirittura negata, si definì sempre più chiaramente” (Montanari M., Gusti del Medioevo, Laterza 2012, p. 83)
Questo, però, valeva soprattutto in teoria: perchè in pratica si consumava molta più carne di quanto si pensi-e tutto a causa della difficoltà di reperire sui mercati il pesce a prezzi contenuti.
Come si accennava all’inizio, il grande problema di quei secoli era legato alla conservazione del cibo: mancavano strumenti adeguati, ma mancavano anche vie di comunicazione che consentissero trasporti brevi e sicuri. Un alimento così deperibile come il pesce non poteva essere immune dalle conseguenze di queste problematiche: e fu proprio per questo che, a dispetto del predicarne il significato di umiltà e di povertà, esso continuò ad essere associato alle prelibatezze dei ricchi e al lusso. Gli stessi monaci venivano accusati di indulgere troppo ai piaceri della tavola, ogni volta che mangiavano pesce e lo stesso Abelardo, in una lettera ad Eloisa in cui per il resto non fa che raccomandarle la pratica della virtù, scrive bello chiaro che piuttosto che dover ripiegare su pesci rari e dai prezzi proibitivi, tanto valeva mangiar carne.
Questo trend si mantenne invariato anche con l’inserimento di nuove specie di pesce, che meglio si prestavano alla conservazione, come l’aringa e soprattutto il merluzzo, alla cui pesca fu proprio la Chiesa a dare impulso: per quanto maggiore fosse il loro consumo, la diffidenza tuttavia rimaneva, specialmente nei confronti del prodotto fresco sempre più simbolo di ricchezza e di abbondanza: se lo potevano permettere solo i signori, non solo per questioni di prezzo, ma anche perchè, essendo un cibo leggero, si pensava che non nutrisse a sufficienza- e che pertanto fosse destinato solo a chi aveva tanta abbondanza di cibo di altro genere da poter mangiare per sfizio e non per necessità. Questo non significa che non lo si mangiasse: ma culturalmente esso rimaneva sempre il surrogato della carne, che restava sempre la pietanza più ambita.
Il ribaltamento dei ruoli a cui assistiamo oggi, con modelli dietetici che spingono verso il consumo di pesce e sconsigliano quello della carne, è dovuto, secondo gli storici dell’alimentazione, al passaggio dalla società della fame alla società dell’abbondanza. Come chiosa Montanari ” da una società che aveva il terrore della pancia vuota-e perciò ricercava soprattuttto cibi riempitivi e nutrienti) a una società che ha il terrore della pancia piena (e perciò si orienta verso cibi leggeri e poco nutrienti).Il cibo quaresimale è andato così perdendo ogni significato di rinuncia di sacrificio, di penitenza. il pesce ha vinto la sua battaglia” (Montanari M., Gusti del Medioevo, Laterza 2012, p. 87)
6 comments
U-A-U che bel excursus! D'altra parte il pesce, con la sua carica simbolica, era presente già in culture di epoche precedenti a quella cristiana. Bello capire come si sia fatto strada fino ad arrivare sulle nostre tavole. Grazie, come sempre 😉
In questi ultimi tempi ho avuto modo di approfondire il tema della Quaresima, e la distinzione tra cibi "di magro" e "di grasso", e questo tuo articolo è stato un ulteriore approfondimento, che mi ha chiarito ancora di più alcuni concetti e passaggi storici che non ero riuscita a comprendere. Bellissimo, me lo sono letto tutto d'un fiato!
Grazie Alessandra, splendido percorrere con te il corso della storia.
un abbraccio
Mi ricorda in un certo senso la parabola delle frattaglie
Quanto mi piace leggere queste argomentazioni che svelano miti o tabù sul cibo. Grazie Alessandra
Quando si dice che c'è sempre da imparare…
Splendido articolo Ale, grazie!!!!!!!!!
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