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Trovare notizie sulle origini dei
cannelloni non è stato per niente facile, anzi direi che a parte le solite
poche righe in cui si dice che risulta essere ricetta “antichissima”, ma antica
quanto non si sa, è praticamente difficile sapere in realtà quando e come siano
stati inventati.
cannelloni non è stato per niente facile, anzi direi che a parte le solite
poche righe in cui si dice che risulta essere ricetta “antichissima”, ma antica
quanto non si sa, è praticamente difficile sapere in realtà quando e come siano
stati inventati.
Sono da generazioni uno dei piatti delle feste un po’ in tutta Italia, al nord
nascono con la stessa sfoglia all’uovo delle lasagne, al sud viene usata la
farina di semola di grano duro. Si fanno ripieni di “magro” con ricotta e
spinaci, o belli ricchi con macinato di carne! Si ricoprono di sughi, ragù,
salse e besciamelle, e non deludono mai nessuno.
nascono con la stessa sfoglia all’uovo delle lasagne, al sud viene usata la
farina di semola di grano duro. Si fanno ripieni di “magro” con ricotta e
spinaci, o belli ricchi con macinato di carne! Si ricoprono di sughi, ragù,
salse e besciamelle, e non deludono mai nessuno.
Tornando alle origini di questa pasta ci sono dei cenni “relativamente” antichi nella prima metà dell’800 tramite un cuoco aretino, tale Giobatta Magi, che cita un “timballo di cannelloni”, ma già Vincenzo Corrado, nel suo ” Cuoco Galante” presenta qualcosa che si avvicina molto al cannellone come lo conosciamo noi, anche se in realtà si tratta di un grosso pacchero prelessato, farcito con carne e tartufi, terminato di cuocere in un sugo di carne.
Poi ho trovato una vera chicca**, gradevole da leggere, dove addirittura si parla di chi li ha relamente creati e dove, ma è una storia un po’ lunga, quindi vi lascio prima la ricetta che ho fatto io, seguendo un po’ i gusti di famiglia, e poi se vi va e siete curiosi avrete una bella storia, che non so se sia vera o no, ma è piacevolissima!!!
CANNELLONI AL FORNO
Per la pasta:
- 3 uova
- 300 g di farina debole
Per il ripieno:
- 150 g di mortadella
- 400 g di ricotta fresca
- 150 g di Parmigiano Reggiano grattugiato
- 1 uovo
- 200 g di spinaci lessati e strizzati
- sale
- pepe
- noce moscata
Per il condimento:
- 250 g di ragù di carne alla Bolognese
- Parmigiano Reggiano grattugiato
Per la besciamella lenta:
- 500 ml di latte fresco intero
- 40 g di burro
- 30 g di farina
- sale
- noce moscata
Fate fondere il
burro a fuoco basso. Versate la farina, mescolate fino ad ottenere una
crema liscia. Appena il composto accenna a schiumare (non deve prendere
colore), versate 3/4 del latte. Raggiunta l’ebollizione, quando il
composto comincia ad ispessirsi aggiungete il resto del latte, salate e
pepate e aggiungete una grattugiata di noce moscata. Mescolate senza fermarvi. Tempo di
cottura circa 15 minuti.
burro a fuoco basso. Versate la farina, mescolate fino ad ottenere una
crema liscia. Appena il composto accenna a schiumare (non deve prendere
colore), versate 3/4 del latte. Raggiunta l’ebollizione, quando il
composto comincia ad ispessirsi aggiungete il resto del latte, salate e
pepate e aggiungete una grattugiata di noce moscata. Mescolate senza fermarvi. Tempo di
cottura circa 15 minuti.
Dopo aver impastato e lavorato l’impasto di uova e farina, stendete la sfogia sottile. Tagliate dei quadrati di circa 10 cm per lato.
Preparate il ripieno, mescolando l’uovo, la ricotta, il Parmigiano Reggiano, la mortadella tritata finemente, gli spinaci, il sale, il pepe e la noce moscata. Inserite tutto in una sac-à-poche.
Sbollentate pochi secondi in acqua leggermente salata i quarati di sfoglia, stendeteli su un canovaccio di cotone.
Farcite da un lato i cannelloni, lasciando un paio di centimetri liberi, per aiutarvi nella chiusura. Arrotolate i cannelloni senza pressare.
Velate il fondo di una pirofila con la besciamella, sistemate i cannelloni uno di fianco all’altro e coprite con altra besciamella, fate un bello strato di ragù e spolverate con il Parmigiano.
Gratinate in forno per circa 15 minuti a 180°C.
Serviteli caldi e buon appetito.
**“Dal libro “Spaghetti all’acqua di mare” di Gaetano Afeltra
Alle ore tredici di un
giorno di agosto del 1924, quando il sole spaccava le pietre e tutto il paese
sembrava assopito in un’immensa colata di luce abbagliante che il riflesso del
mare trasformava in una nebbiolina evanescente, improvvisamente le campane della
chiesa del convento, fondato da San Francesco nel 1222, cominciarono a suonare
a distesa, come nel giorno di Pasqua, al
momento della Resurrezione. Amalfi si scosse di colpo. Quale bella notizia
recava quel suono gioioso? Chi era per strada si voltò a guardare la torre del
campanile del convento come se dagli archi, oltre al dondolare del battaglio
contro la campana, dovesse venir fuori anche il motivo di quel richiamo
festoso. I sagrestani del Duomo, di San Biagio e dello Spirito Santo credettero
a un evento straordinario e, senza nemmeno chiedersi la ragione di
quell’inatteso scampanio solenne, corsero anch’essi a suonare. Ormai era
diventato un giorno di festa. Ma che festa? Dai balconi la gente se lo
chiedeva, ma nessuno sapeva rispondere. Si vedevano preti trafelati e
inconsapevoli correre alle loro chiese per conoscere la lieta novella.
L’annuncio di un concilio? La nomina di un vescovo? Solo al vecchio convento
sapevano. La chiesa del convento è rimasta tale e quale com’era, come
la volle il poverello d’Assisi, che ad Amalfi restò due anni col suo compagno
fra’ Bernardo di Chiaravalle. Edificò il convento per l’abitazione dei monaci e
un chiostro bellissimo. Poi ci furono le varie espropriazioni e, in seguito al
concordato di Terracina, dei 1818, tra i Borboni e la Chiesa, il convento cessò
come casa religiosa e passò in proprietà alla parrocchia di Santa Maria Assunta
della frazione Pastena di Amalfi. Ed è tuttora di sua esclusiva proprietà,
nonostante le cause intentate dai frati conventuali.La parrocchia dette il
convento in affitto alla famiglia Barbaro con l’obbligo della cura della chiesa
annessa: messa alla domenica, funzioni religiose secondo le regole episcopali,
il rosario all’ora dei vespri, la nomina di un cappellano, tutto come se ci
fossero ancora i frati. I Barbaro, gente devota, hanno mantenuto sempre fede ai
patti. Del convento, prima fecero una locanda, poi un albergo, l’Hòtel Luna.
Ancora oggi, dopo più di un secolo e mezzo, locatore e affittuario non sono
cambiati. L’albergo, che ha anche un’ala nuova modernissima, conserva nella
parte vecchia l’antica struttura. Le celle, hanno le
stesse porte di legno di allora, con i piccoli battenti e il finestrino a grata
per vedere chi bussa; la chiave della serratura è la medesima di un tempo: di
ferro, lunga, nera e rozza. Le camere sono monacali nel senso più stretto della
parola, allineate su due piani: uno a livello del chiostro, l’altro sotto.
Alla sera e alla notte solo una luce molto fioca e schermata consente di
orientarsi in quella semioscurità quieta e mistica. Un silenzio fatto di pace e
di solitudine sembra scendere dal cielo: quando è stellato e c’è la luna piena,
le bifore del porticato appaiono maestose e insieme lontane mille anni dal rumore
e dalla violenza delle città, suscitando un bisogno di bene e talvolta, in
quella beatitudine, un senso di rimorso. Ma anche passioni d’amore così forti
da sembrare irripetibili. Un vero incantesimo. I forestieri ne restano rapiti,
muovendosi con circospezione, come se appartenessero a un ordine religioso.
Incontrandosi si salutano con inchini appena accennati, parlano bisbigliando,
chiudono le porte con delicatezza da certosino. I servizi, i bagni, il
guardaroba sono ricavati nella cella attigua così che, se prima, ai due lati
del chiostro c’erano ventiquattro monaci in ventiquattro celle, oggi ci sono
dodici celle sopra e dodici al piano inferiore. L’arredamento rispetta la
tradizione: nelle celle tutto è rimasto povero ma pacatamente elegante: dov’era
il giaciglio con ai due l’inginocchiatoio e la sedia, c’è un letto più ampio
che va quasi da un muro all’altro, lindo e molto sobrio, se così può dirsi. Ai
due piedi due poltroncine e, contro la parete, un tavolinetto cosiddetto
“fratino”. Da un finestra piccola con le
giorno di agosto del 1924, quando il sole spaccava le pietre e tutto il paese
sembrava assopito in un’immensa colata di luce abbagliante che il riflesso del
mare trasformava in una nebbiolina evanescente, improvvisamente le campane della
chiesa del convento, fondato da San Francesco nel 1222, cominciarono a suonare
a distesa, come nel giorno di Pasqua, al
momento della Resurrezione. Amalfi si scosse di colpo. Quale bella notizia
recava quel suono gioioso? Chi era per strada si voltò a guardare la torre del
campanile del convento come se dagli archi, oltre al dondolare del battaglio
contro la campana, dovesse venir fuori anche il motivo di quel richiamo
festoso. I sagrestani del Duomo, di San Biagio e dello Spirito Santo credettero
a un evento straordinario e, senza nemmeno chiedersi la ragione di
quell’inatteso scampanio solenne, corsero anch’essi a suonare. Ormai era
diventato un giorno di festa. Ma che festa? Dai balconi la gente se lo
chiedeva, ma nessuno sapeva rispondere. Si vedevano preti trafelati e
inconsapevoli correre alle loro chiese per conoscere la lieta novella.
L’annuncio di un concilio? La nomina di un vescovo? Solo al vecchio convento
sapevano. La chiesa del convento è rimasta tale e quale com’era, come
la volle il poverello d’Assisi, che ad Amalfi restò due anni col suo compagno
fra’ Bernardo di Chiaravalle. Edificò il convento per l’abitazione dei monaci e
un chiostro bellissimo. Poi ci furono le varie espropriazioni e, in seguito al
concordato di Terracina, dei 1818, tra i Borboni e la Chiesa, il convento cessò
come casa religiosa e passò in proprietà alla parrocchia di Santa Maria Assunta
della frazione Pastena di Amalfi. Ed è tuttora di sua esclusiva proprietà,
nonostante le cause intentate dai frati conventuali.La parrocchia dette il
convento in affitto alla famiglia Barbaro con l’obbligo della cura della chiesa
annessa: messa alla domenica, funzioni religiose secondo le regole episcopali,
il rosario all’ora dei vespri, la nomina di un cappellano, tutto come se ci
fossero ancora i frati. I Barbaro, gente devota, hanno mantenuto sempre fede ai
patti. Del convento, prima fecero una locanda, poi un albergo, l’Hòtel Luna.
Ancora oggi, dopo più di un secolo e mezzo, locatore e affittuario non sono
cambiati. L’albergo, che ha anche un’ala nuova modernissima, conserva nella
parte vecchia l’antica struttura. Le celle, hanno le
stesse porte di legno di allora, con i piccoli battenti e il finestrino a grata
per vedere chi bussa; la chiave della serratura è la medesima di un tempo: di
ferro, lunga, nera e rozza. Le camere sono monacali nel senso più stretto della
parola, allineate su due piani: uno a livello del chiostro, l’altro sotto.
Alla sera e alla notte solo una luce molto fioca e schermata consente di
orientarsi in quella semioscurità quieta e mistica. Un silenzio fatto di pace e
di solitudine sembra scendere dal cielo: quando è stellato e c’è la luna piena,
le bifore del porticato appaiono maestose e insieme lontane mille anni dal rumore
e dalla violenza delle città, suscitando un bisogno di bene e talvolta, in
quella beatitudine, un senso di rimorso. Ma anche passioni d’amore così forti
da sembrare irripetibili. Un vero incantesimo. I forestieri ne restano rapiti,
muovendosi con circospezione, come se appartenessero a un ordine religioso.
Incontrandosi si salutano con inchini appena accennati, parlano bisbigliando,
chiudono le porte con delicatezza da certosino. I servizi, i bagni, il
guardaroba sono ricavati nella cella attigua così che, se prima, ai due lati
del chiostro c’erano ventiquattro monaci in ventiquattro celle, oggi ci sono
dodici celle sopra e dodici al piano inferiore. L’arredamento rispetta la
tradizione: nelle celle tutto è rimasto povero ma pacatamente elegante: dov’era
il giaciglio con ai due l’inginocchiatoio e la sedia, c’è un letto più ampio
che va quasi da un muro all’altro, lindo e molto sobrio, se così può dirsi. Ai
due piedi due poltroncine e, contro la parete, un tavolinetto cosiddetto
“fratino”. Da un finestra piccola con le
imposte dipinte in
verde, si vede un mare immenso, da Capo d’Orso a Capri, il golfo di Salerno e
il golfo di Napoli, i Faraglioni e nelle giornate chiare e splendenti perfino
la Sardegna, dicono i marinai. Certo i monaci sapevano vivere e San Francesco
sapeva scegliere i luoghi dei conventi. Ma torniamo alle campane. Amalfi è
tutta spalancata sul mare, cinta e chiusa alle spalle da una catena di monti
che ai tempi del suo splendore repubblicano ne taceva una fortezza imprendibile
da parte dei corsari nelle loro varie incursioni. A una estremità del paese,
quella di destra, con la torre saracena, c’è l’Hòtel Luna; mentre all’estremità
sinistra, posto in alto c’è il famoso Cappuccini, l’albergo ultrasecolare di
fama mondiale. Convento anch’esso, con chiostro e celle, un lungo viale con
colonnato a reggere il pergolato che fa da tetto con le foglie delle viti e,
nella stagione giusta, i grappoli d’uva. Ai bordi, rampicanti di bouganvillee e
gerani. Qui i monaci cappuccini, passeggiando, recitavano preghiere, leggevano
il breviario e ringraziavano il Signore per quella vita serafica e piacevole.
Anche il Cappuccini, dal 1826, fu dato alla famiglia Vozzi, che ancora oggi ne
ha mantenuto lo stile. La sala da pranzo è il vecchio refettorio, e all’ora dei
pasti suona la vecchia campanella dei frati. E’ sospeso sul mare, in una grande
cornice verde, in mezzo ad un bosco rigoglioso, fra aranceti, rose e aiuole di
begonie. Fino a pochi anni fa, prima che vi fossero istallati gli ascensori, vi
si accedeva da una rampa pedonale dove le persone anziane salivano in
portantina. E qui comincia lo `spettacolo. L’ultimo dei Vozzi – don Alfredo – un
uomo alto, magro, biondo ancora in tarda età, dal portamento signorile, vestito
con una eleganza sobria e un po’ négligée, pieno di charme, poliglotta,
somigliante per pietà a Lawrence d’Arabia e per metà al Kaiser, era amico di
re, di poeti, di scienziati e di artisti. Oggi si direbbe un gran manager:
niente affatto, solo uno stravagante padrone di casa, pieno di fascino. Tale
era la simpatia che ispirava che, per un Capodanno, si dettero convegno quattro
re che aspettarono la mezzanotte del 31 dicembre insieme a Salvatore Di Giacomo
e Guglielmo Marconi, questi ultimi ospiti abituali di don Alfredo. Una reggia e
un’accademia di arte e di scienza? Tutt’altro. Solo una casa di amici. Don
Alfredo aveva qualche disturbo di vecchiaia, ma essendo sempre stato una
quercia, insofferente del più piccolo fastidio, era diventato nevrastenico. Si
considerava malato, ma non lo era. Una
civetteria da vecchio signore. Passava molte ore a letto e quando si alzava
sedeva sotto il pergolato a ricevere gli ospiti. Fumava rabbiosamente sigari
toscani, ma più che
fumare, dopo averli accesi, li
stritolava coi denti e li buttava
via. Per oltre trent’anni non era mai sceso in paese. Per gli amalfitani era un
mito. Aveva molte stranezze: ogni sera mandava al capitano del piroscafo che
faceva servizio per Napoli, un dolce o un altro piatto squisito perché, al
mattino alle sette, alla partenza del vapore, non suonasse la sirena che
avrebbe svegliato i clienti. Una piccola innocente corruzione e una riguardosa
attenzione. Quando invitava qualcuno a colazione a un certo punto, stufo di una
pietanza, diceva: “basta”. Ed esigeva che anche il commensale
smettesse. Per sé non voleva il cambio dei piatti, ma mangiava le varie
pietanze in un piatto solo, ammonendo ogni volta il cameriere: “Alla
borbonica”. Cosa c’entravano i Barboni non si sa. Come se quella dinastia
avesse avuto la stessa strana abitudine. Non usava il coltello, ma uri
temperino che teneva in tasca. Fisime e nevrastenie messe insieme. Però quando
vedeva che, dalle rampe, salivano a piedi o in portantina “nuovi
arrivi”, si rinvigoriva e, pur facendosi sorreggere (per modo di dire) dai
due fedeli facchini – Andrea Torre e Giuseppe Dipino – si metteva in cima alle
scale a ricevere gli ospiti. Qui cominciava la grande scena. Bello, dritto e
solenne, scortato dai due inservienti in tenuta turchina, don Alfredo, con uno
scialletto viola sulle spalle, accoglieva i forestieri. Dopo aver accennato un
inchino, diceva: “Un vecchio infermo si alza dal proprio letto per dirvi
bene arrivati ai Cappuccini”. A quelle magiche parole, l’amore scoppiava
improvviso e i clienti, anziché un giorno, rimanevano mesi e tornavano negli
anni seguenti. Altro che “pubbliche relazioni”: questo era cuore e
intelligenza. E la storia della campana? Finalmente ci siamo arrivati. I
rapporti tra i due alberghi – l’Hòtel Luna e l’Hòtel Cappuccini – erano di
reciproco rispetto e di cavalleresca lealtà. Tutte e due le
“dinastie” alberghiere – i Barbaro del Luna e i Vozzi dei Cappuccini
– avevano mantenuto una regola a cui non vennero mai meno. Quando la cucina di
uno dei due alberghi inventava un piatto nuovo, il primo assaggio e il giudizio
spettavano all’altro. Così avvenne quel giorno dell’agosto 1924. Lo chef,
Salvatore Coletta, dopo vari esperimenti mantenuti segreti, approntò un piatto
che presentò personalmente a don Alfredo. Vi aveva lavorato per mesi e gli aveva
dato anche un nome: cannelloni. Allineati nel piatto di portata, avevano un
profumo sublime e colori vivaci. Don Alfredo ne assaggiò uno, sgranò gli occhi
e disse solo: “Bravo, Salvatore, per me è una cosa divina. Occorre però il
giudizio dell’Hòtel luna. Mandateli subito a don Andrea Barbaro”. Il messo partì di volata. Don Andrea, comunemente chiamato “il padrone della
Luna”, era un celebre buongustaio: pesava centotrenta chili. Assaggiò,
dette un urlo, spazzò via tutto il piatto voracemente e alzatosi, col
tovagliolo ancora appuntato al collo, detto ordine di suonare a gloria le
campane della chiesa del convento. Per lui l’invenzione dei cannelloni era un
evento straordinario da festeggiare, una grande conquista culinaria degna di
essere comunicata al popolo. Il sagrestano lo guardò timido. Enorme, con voce
perentoria, don Andrea non volle saper storie: “Corri.’ disse “fai
presto, non fare il fesso. Lo sai che oggi è nato un grande piatto?”. Il
brav’uomo obbedì. Don Andrea era esultante come la notte di Natale per la
nascita del Bambino Gesù. Lo scampanio improvviso giunse ai Cappuccini. Don
Alfredo notò sulla terrazza dell’Hotel Luna uno strano sventolio. Prese il
binocolo e vide: era tutto il personale del Luna che taceva festa sventolando i
tovaglioli. L’onore delle armi al concorrente vincitore. Intanto tutte le
campane di Amalfi continuavano a suonare. Certo, dopo l’invenzione delle
bussola quella dei cannelloni è l’altro vanto della città. A Londra, a New
York, nel mondo li mangiano ma non ne conoscono la storia, forse nemmeno in
Italia. Salvatore Coletta resta un signore sconosciuto che non c’è più. Dio
l’abbia in gloria.”.
verde, si vede un mare immenso, da Capo d’Orso a Capri, il golfo di Salerno e
il golfo di Napoli, i Faraglioni e nelle giornate chiare e splendenti perfino
la Sardegna, dicono i marinai. Certo i monaci sapevano vivere e San Francesco
sapeva scegliere i luoghi dei conventi. Ma torniamo alle campane. Amalfi è
tutta spalancata sul mare, cinta e chiusa alle spalle da una catena di monti
che ai tempi del suo splendore repubblicano ne taceva una fortezza imprendibile
da parte dei corsari nelle loro varie incursioni. A una estremità del paese,
quella di destra, con la torre saracena, c’è l’Hòtel Luna; mentre all’estremità
sinistra, posto in alto c’è il famoso Cappuccini, l’albergo ultrasecolare di
fama mondiale. Convento anch’esso, con chiostro e celle, un lungo viale con
colonnato a reggere il pergolato che fa da tetto con le foglie delle viti e,
nella stagione giusta, i grappoli d’uva. Ai bordi, rampicanti di bouganvillee e
gerani. Qui i monaci cappuccini, passeggiando, recitavano preghiere, leggevano
il breviario e ringraziavano il Signore per quella vita serafica e piacevole.
Anche il Cappuccini, dal 1826, fu dato alla famiglia Vozzi, che ancora oggi ne
ha mantenuto lo stile. La sala da pranzo è il vecchio refettorio, e all’ora dei
pasti suona la vecchia campanella dei frati. E’ sospeso sul mare, in una grande
cornice verde, in mezzo ad un bosco rigoglioso, fra aranceti, rose e aiuole di
begonie. Fino a pochi anni fa, prima che vi fossero istallati gli ascensori, vi
si accedeva da una rampa pedonale dove le persone anziane salivano in
portantina. E qui comincia lo `spettacolo. L’ultimo dei Vozzi – don Alfredo – un
uomo alto, magro, biondo ancora in tarda età, dal portamento signorile, vestito
con una eleganza sobria e un po’ négligée, pieno di charme, poliglotta,
somigliante per pietà a Lawrence d’Arabia e per metà al Kaiser, era amico di
re, di poeti, di scienziati e di artisti. Oggi si direbbe un gran manager:
niente affatto, solo uno stravagante padrone di casa, pieno di fascino. Tale
era la simpatia che ispirava che, per un Capodanno, si dettero convegno quattro
re che aspettarono la mezzanotte del 31 dicembre insieme a Salvatore Di Giacomo
e Guglielmo Marconi, questi ultimi ospiti abituali di don Alfredo. Una reggia e
un’accademia di arte e di scienza? Tutt’altro. Solo una casa di amici. Don
Alfredo aveva qualche disturbo di vecchiaia, ma essendo sempre stato una
quercia, insofferente del più piccolo fastidio, era diventato nevrastenico. Si
considerava malato, ma non lo era. Una
civetteria da vecchio signore. Passava molte ore a letto e quando si alzava
sedeva sotto il pergolato a ricevere gli ospiti. Fumava rabbiosamente sigari
toscani, ma più che
fumare, dopo averli accesi, li
stritolava coi denti e li buttava
via. Per oltre trent’anni non era mai sceso in paese. Per gli amalfitani era un
mito. Aveva molte stranezze: ogni sera mandava al capitano del piroscafo che
faceva servizio per Napoli, un dolce o un altro piatto squisito perché, al
mattino alle sette, alla partenza del vapore, non suonasse la sirena che
avrebbe svegliato i clienti. Una piccola innocente corruzione e una riguardosa
attenzione. Quando invitava qualcuno a colazione a un certo punto, stufo di una
pietanza, diceva: “basta”. Ed esigeva che anche il commensale
smettesse. Per sé non voleva il cambio dei piatti, ma mangiava le varie
pietanze in un piatto solo, ammonendo ogni volta il cameriere: “Alla
borbonica”. Cosa c’entravano i Barboni non si sa. Come se quella dinastia
avesse avuto la stessa strana abitudine. Non usava il coltello, ma uri
temperino che teneva in tasca. Fisime e nevrastenie messe insieme. Però quando
vedeva che, dalle rampe, salivano a piedi o in portantina “nuovi
arrivi”, si rinvigoriva e, pur facendosi sorreggere (per modo di dire) dai
due fedeli facchini – Andrea Torre e Giuseppe Dipino – si metteva in cima alle
scale a ricevere gli ospiti. Qui cominciava la grande scena. Bello, dritto e
solenne, scortato dai due inservienti in tenuta turchina, don Alfredo, con uno
scialletto viola sulle spalle, accoglieva i forestieri. Dopo aver accennato un
inchino, diceva: “Un vecchio infermo si alza dal proprio letto per dirvi
bene arrivati ai Cappuccini”. A quelle magiche parole, l’amore scoppiava
improvviso e i clienti, anziché un giorno, rimanevano mesi e tornavano negli
anni seguenti. Altro che “pubbliche relazioni”: questo era cuore e
intelligenza. E la storia della campana? Finalmente ci siamo arrivati. I
rapporti tra i due alberghi – l’Hòtel Luna e l’Hòtel Cappuccini – erano di
reciproco rispetto e di cavalleresca lealtà. Tutte e due le
“dinastie” alberghiere – i Barbaro del Luna e i Vozzi dei Cappuccini
– avevano mantenuto una regola a cui non vennero mai meno. Quando la cucina di
uno dei due alberghi inventava un piatto nuovo, il primo assaggio e il giudizio
spettavano all’altro. Così avvenne quel giorno dell’agosto 1924. Lo chef,
Salvatore Coletta, dopo vari esperimenti mantenuti segreti, approntò un piatto
che presentò personalmente a don Alfredo. Vi aveva lavorato per mesi e gli aveva
dato anche un nome: cannelloni. Allineati nel piatto di portata, avevano un
profumo sublime e colori vivaci. Don Alfredo ne assaggiò uno, sgranò gli occhi
e disse solo: “Bravo, Salvatore, per me è una cosa divina. Occorre però il
giudizio dell’Hòtel luna. Mandateli subito a don Andrea Barbaro”. Il messo partì di volata. Don Andrea, comunemente chiamato “il padrone della
Luna”, era un celebre buongustaio: pesava centotrenta chili. Assaggiò,
dette un urlo, spazzò via tutto il piatto voracemente e alzatosi, col
tovagliolo ancora appuntato al collo, detto ordine di suonare a gloria le
campane della chiesa del convento. Per lui l’invenzione dei cannelloni era un
evento straordinario da festeggiare, una grande conquista culinaria degna di
essere comunicata al popolo. Il sagrestano lo guardò timido. Enorme, con voce
perentoria, don Andrea non volle saper storie: “Corri.’ disse “fai
presto, non fare il fesso. Lo sai che oggi è nato un grande piatto?”. Il
brav’uomo obbedì. Don Andrea era esultante come la notte di Natale per la
nascita del Bambino Gesù. Lo scampanio improvviso giunse ai Cappuccini. Don
Alfredo notò sulla terrazza dell’Hotel Luna uno strano sventolio. Prese il
binocolo e vide: era tutto il personale del Luna che taceva festa sventolando i
tovaglioli. L’onore delle armi al concorrente vincitore. Intanto tutte le
campane di Amalfi continuavano a suonare. Certo, dopo l’invenzione delle
bussola quella dei cannelloni è l’altro vanto della città. A Londra, a New
York, nel mondo li mangiano ma non ne conoscono la storia, forse nemmeno in
Italia. Salvatore Coletta resta un signore sconosciuto che non c’è più. Dio
l’abbia in gloria.”.
2 comments
Il libro è andato dritto dritto nella lista dei desideri… (se solo mio marito si decidesse a guardarla più spesso! 😛 )
Sai che non ho mai messo la mortadella nel ripieno? Ora che l'ho letto però voglio provare…
Eh la mortazza… I retaggi che mi porto da Bulagna!
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