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Mangiato bene?
Fatta la pennichella?
Preso il caffé?
E basta coccole, che il viaggio è ancora lungo e finisce che non si arriva, giù giù in fondo alla nostra Penisola, che a mano a mano che si procede verso Sud, si trasforma in una specie di giungla, con simil pici a fare da liane, a conferma di una tradizione antichissima, che già in epoca rinascimentale trovò una sua codificazione nei trattati di cucina, quale piatto trasversale, capace di fare la sua figura sulle tavole dei ricchi e di saziare gli appetiti dei poveri
Se scorriamo indietro il tempo, l’analisi diventa più complicata, perché i ricettari e i testi che son giunti fino a noi (es. Libro de arte coquinaria di Martino da Como; De honesta voluptate et valetudine di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina) riportano perlopiù indicazioni rivolte agli addetti che lavoravano nei palazzi dei nobili, dove non era così inusuale trovare materie prime provenienti da altre zone della penisola -e non solo se pensiamo alle spezie. E’ altrettanto vero, però, che spesso la cucina dei ricchi faceva riferimento alla cultura popolare che, come un minimo comune denominatore, rappresentava un’importante base da cui partire e da cui distinguersi aggiungendo spezie o ingredienti più nobili. Spesso preparazioni povere, che costituivano gli elementi principali -se non unici- dei pasti del contadino, nei banchetti di palazzo fungevano da accompagnamento per altre pietanze e soprattutto per le carni. Nel Libro de arte coquinaria, infatti, troviamo le prime tracce di lavorazione della pasta, servita come contorno di altri piatti. Servendo da base per la cucina dei nobili, che non ne trascurava la provenienza, dunque è indubbio che ogni ricetta di pasta fosse legata alle specificità del territorio, ancor prima di quell’insediamento nelle campagne a partire dal Settecento.
“A mugliere du miricane/ nun se mangia cchiù patane/ Ma si mangia la galline / E ci mitte li tagliolini”: con queste parole, gli abitanti della Lucania a metà del XIX secolo facevano riferimento al cambiamento di status sociale delle mogli degli emigrati: grazie al denaro che veniva mandato a casa dai loro mariti, le sognore ppotevano permettersi una dieta più sofisticata, sostituendo alle poverissime patate il pollo e i tagliolini, dei quali ci è giunta una ricetta antichissima: “la pasta veniva predisposta dalla massaia impastando farina con acqua tiepida e sale; poi, schiacciata, era distesa con una sorta di mattarello- lainatir- Quindi, col coltello, si tagliava in minuscole striscioline” ( Giampietro, A., Frammenti di vita contadina, Matera, p. 71)
La ricetta, in sè, non crea stupore, trattandosi del solito impasto di acqua, farina e sale che costituisce il leit motif del nostro viaggio: quello che intriga, semmai, è la sua presenza su una tavola da ricchi, cosa che, finora, era avvenuto solo con la pasta ripiena. Ma siamo al Sud, terra di fantasia, di estro, di genialità, tutti ingredienti capaci di trasformare un piatto povero come la pasta in un tripudio di ingredienti, di sapori, di colori, di profumi in grado di soddisfare tutti i sensi, anche quelli più esigenti e più raffinati. Benvenuti in Campania, quindi, nella regione che più di ogni altra ha saputo declinare la pasta in mille forme e in mille modi, trovando per ciascuno il nome adatto- neanche a dirlo, il più appropriato, il più azzeccato. Ed ecco che quelli che altrove son “maccheroni”, qui diventano spaghetti, vermicelli, ziti, zitoni, paccheri, maltagliati, linguine, perciatelli, bucatini, mezzanelli, penne, pennette, sedani, tortiglioni, rigatoni, millerighe, casarecce, ditali, ditalini, fettucce, fettuccine, lumache, lumachine, farfalle, farfalline, gomiti, orecchiette, cannelloni (Manzon, D., La Cucina campana) in uno scioglilingua irresistibile e goloso, che non tardò ad esser messo in versi
Fra il ceto delle paste c’è il maccheroncino
riccio di forretana e il tagliarello
cannarone e fidelino
cappelluccio, spaghetto e vermicello:
lingua di passero e paternostrino
di prete orecchio e scorza di nocella,
lagana, tagliolino e stivaletto,
lasagna grossa e piccola e aneletto.
Poscia le punte d’aghi, le stelline,
che van più di mille per boccone,
e le grate a mangiar rose marine,
li ditali e semenze di mellone,
li tacchi e di scarola le semine,
lo gnocchetto e di zita il maccherone,
acinetti di pepe e laganelle,
seme di peparoli e tagliatelle.
Ma però, come diss’io, il primo vanto
porta fra tutti quanti il maccherone
E se ora vi dicessimo Cagghjubbili, o Cinghel-e- ccénghele o Fesckette o Mbilembande o Rasckatieddi o Zumari, dove potremo essere arrivati, secondo voi? O meglio: dove, se non in Puglia, la regione che, forse più di tutte, ha saputo mantenere intatta la vocazione più schiettamente mediterranea delle origini della nostra cucina, sublimata in quest’uso del grano che la connota nella sua unicità e nella sua autentictà? Inifiniti sono i tipi di pasta pugliesi, infiniti i condimenti: ” il distico popolare implora: ‘Criste mì, fa’ chiove le maccarune e le cianghe de le logge fatt’a ragu’-Gessummio, fa’ piovere maccheroni e muta le logge dei balconi in ragù. Le donne preparano ancora, in casa, ‘recchie’, ‘strascenate’, ‘troccoli’, chiancarelle’, ‘pociacche’, ‘pestazzule’, mignuicchie’, fenescecchie, ma i nomi cambiano, a volte di niente, a volte moltissimo ad ogni angolo…. provvede poi la fantasia, quasi sempre con ingredienti poveri sottomano, a creare le salse per condirli” (Carnacina, L., Veronelli, L., La Cucina Rustica Regionale, vol. 4)
Altra regione, altra musica- ed è quella ruvida, aspra e forte della cucina calabrese, un’altra tradizione che ha saputo usare l’alchimia dell’ingegno per trasformare ingredienti poveri in piatti di grande espressività e di grande carattere. L’esempio più indicato, in questo viaggio, sono i Salatielli, pasta lunga poverissima, contraddistinta dall’assenza di sale nell’impasto e dalla presenza di un sugo basico, essenziale, a cui le acciughe, l’aglio e i pepi della Calabria conferiscono gusto e vigore.
Salatielli
farina q.b.
Acqua q.b.
Per il sugo
i filetti di 4-5 acciughe salate
2 spicchi d’aglio
prezzemolo tritato
olio di frantoio
mollica di pane casareccio abbrustolita
pepe nero
pepe rosso
sale
Impastate la farina con acqua e sale, in modo da ottenere una pasta morbida. Stendetela e riducetela con le mani in lunghi fili da raccogliere a nido. A parte, preparate la salsa, friggendo assieme i filetti di acciughe,l’ aglio e la mollica. Far bollire la pasta, scolarla al dente e condirla con la salsa e una spolverata di pepe e prezzemolo.
alla settimana prossima, con le ultime tappe
Elisa- Saporidielisa
Alessandra- Menuturistico
7 comments
care, i vs. post diventano sempre più impegnativi! 🙂 non si riescono a leggere di corsa e bisogna trovare del tempo.
ho almeno 3 che devo leggere con attenzione! 🙂
buona giornata e se posso dire, le ricette ok. ma è la storia che ci sta dietro che mi affascina e mi porta a provare una piuttosto che un'altra.
μπραβο!!!
Un post da stampare e incorniciare, un post che ci fa viaggiare per tutta la penisola e ci fa tuffare nella meravigliosa varietà dei dialetti italiani.
Quasi mi dispiace non aver preparato anche un piatto di salatielli! 😉
per favore,la prox volta potete usare un carattere tipo Arial o similari? mi riesce purtroppo faticosa e difficile la lettura di un pezzo che merita di essere lungamente assaporato. grazie.
vero.
Un post magistrale, cara Elisa, che ci ha portati diritti dentro al gusto e alla ruvidezza delle paste regionali, vividamente resi dai nomi con cui vengono chiamate.
Un excursus che mi rende ancora più consapevole e orgogliosa di essere Italiana, in una situazione come quella attuale in cui dell'orgoglio nazionale rimane ben poco.
Grazie. 🙂
Grazie a te Mapi (anche se ad onor del vero quel pezzo è di Ale :))
Son d'accordo: la cucina è ormai una delle poche cose per cui vado fiera di essere italiana 😉
Cara Mapi, hai ragione, le nostre due "guide" ci hanno regalato un bellissimo post! Concordo con te, in questo periodo così traballante per la prima volta sento di aver bisogno di sentire ancora quell'orgoglio di essere italiana che prima non avevo mai messo in dubbio.
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